Sanremo 2014. Nell’anno de “La grande bellezza” si alzano il canto d’amore di Arisa e il rap di Rocco Hunt


Si conclude la nostra “road map Sanremo” che ha ripercorso la storia del Festival della canzone italiana dalla sua nascita al nostro tempo. Spazio, adesso, da martedì a sabato prossimi, all’edizione 2021, affidata alla collaudata coppia Amadeus-Fiorello che, in assenza del pubblico in sala a causa della pandemia, sarà un evento tutto televisivo

di Gianni De Iuliis

Dal 18 al 22 febbraio 2014 si svolse al teatro Ariston la cinquantasettesima edizione del Festival di Sanremo. Fu condotto da Fabio Fazio, affiancato da Luciana Littizzetto.

La canzone vincitrice fu Controvento di Arisa, mentre la canzone vincitrice della sezione Nuove proposte fu Nu juorno buono di Rocco Hunt. Così Arisa in un’intervista: «Controvento è la canzone dell’amore vero. È una promessa: io sarò sempre al tuo fianco, qualunque cosa accada. Noi vogliamo cambiare la vita delle persone che amiamo, invece dobbiamo accettarle per quel che sono e condividere il loro percorso, facendo sentire tutto il nostro amore. Quando ho imparato ad accettarli e a stare vicina a loro senza pretendere nulla, ho recuperato il rapporto con i genitori.»

Rocco Hunt, si definisce «un po’ scugnizzo un po’ intellettuale», canta la realtà della sua terra, lacerata da Camorra, illegalità e violenza. Ma nel suo rap Rocco Hunt infonde anche messaggi di positività: «Questa mattina per fortuna c’è un’aria diversa / Il sole coi suoi raggi penetra dalla finestra / Quanto è bella la mia terra, mi manca quando parto / Porto una cartolina di riserva / Questo posto non deve morire / La mia gente non deve partire / Il mio accento si deve sentire / La strage dei rifiuti, l’aumento dei tumori / Siamo la terra del sole, non la terra dei fuochi / Questa mattina, per fortuna, la storia è cambiata / Vedo la gente che sorride spensierata / Non esiste cattiveria e si sta bene in strada / Il mondo si è fermato in questa splendida giornata».

La grande bellezza, un film di Paolo Sorrentino, con attore protagonista Toni Servillo, vince il Premio Oscar come miglior film straniero del 2014.

Il protagonista del film è Jep Gambardella, giornalista di costume sessantacinquenne, che nella sua quotidianità caratterizzata da eventi mondani e presenzialismi mette in evidenza la Roma attuale, caratterizzata da un impietoso contrasto tra la sua bellezza artistica e la decadenza etica in cui vive, a causa di una sciatteria amministrativa che la condiziona e della superficialità dei suoi abitanti. Egli giunge nella capitale molto giovane e raggiunge subito il successo grazie alla pubblicazione di un libro, L’apparato umano, che otterrà successo e vincerà molti premi, ma che resterà un’opera prima e unica: infatti Gambardella non scriverà più libri, a causa della sua innata indolenza e di una crisi d’ispirazione.  La sua esistenza quindi si è appiattita in maniera ossessiva sui timi della mondanità romana: «Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che potrebbe essere definito “il vortice della mondanità”. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire».

Un autentico capolavoro, a metà strada tra La Dolce vita di Fellini e il Satyricon di Petroni Arbitro, molto apprezzato all’estero, ma che ha diviso la critica e il pubblico italiani. In verità il film non può essere banalizzato solo nella sua pars destruens, cioè il racconto impassibile e impietoso della decadenza contemporanea. Esso induce a una seria riflessione sul concetto di Bellezza. Senza scomodare Kant, se il bello è circoscritto a un modello soggettivo e relativistico, se non concorre alla creazione di una comunità estetica, se non è analizzato nella sua portata necessaria e universale, se è segato da una dimensione etica riconosciuta e comunemente accettata, diventa banalità, superficialità, frivolezza.

Io credo che nel film di Sorrentino ci sia proprio un’attenzione alla degenerazione del concetto di bello, spesso relegato nella storia della cultura occidentale, dopo la parentesi della classicità greca, a una dimensione soggettiva e frivola, slegata da ogni rapporto con l’eticità. La nozione classica di Bellezza è stata totalmente soppiantata dal modello cattolico che ha condizionato la storia occidentale, relegando il bello nella sfera dell’inutile, del superfluo, del vanitoso, del peccaminoso. La decadenza della cultura occidentale, ben descritta da Sorrentino, è probabilmente anche figlia di una lacerazione del senso estetico, che è divenuto estetismo edonistico, che ha perso la sua capacità di creare una comunità mediante i valori dell’equilibrio, dell’armonia.

Ricordo due figure del film, il cardinale Bellucci, in cui è più viva la passione per la cucina che per la fede cattolica e la Santa, suor Maria, una missionaria cattolica nel terzo mondo che evocherebbe madre Teresa di Calcutta. Due figure antitetiche ma ugualmente stritolate dalla mondanità romana, trasformate in comparse funzionali al grande circo della città eterna.