Past lives (2023) regia di Celine Song


Da Seoul a New York, la fine dell’infanzia in uno struggente film d’esordio

di Franco La Magna
Una vena di struggente malinconia, attraversa l’intero percorso narrativo del delicatissimo e intimista Past lives (2023, presentato alla 73.a edizione del Festival di Berlino), fulminante e sorprendente opera prima della regista, sceneggiatrice e drammaturga trentaseienne sud coreana Celine Song che – attingendo abbondantemente dalla propria biografia (ha lasciato con la famiglia la Corea per risiedere prima in Canada e successivamente negli Stati Uniti, dove si è sposata, proprio come accade nel film) – con quest’opera d’esordio si candida autorevolmente ai più importanti riconoscimenti cinematografici mondiali (ha ricevuto, tra gli altri, la candidatura all’Oscar come miglior film straniero). Scansando ogni retorica dei sentimenti, sempre in agguato in storie similari, e aprendo con un prologo interrogativo (chi sono le tre persone sedute al bancone di un bar?, che è quasi la fine del film), Celin Song racconta in flashback con mano ispirata di un lungo amore irrealizzato, della forza dirompente dei sentimenti inespressi, pedinando in principio una breve tranche de vie di due ragazzini d’ingegno, una bimba e un bimbo in competizione scolastica, che si ritrovano anni dopo, ormai adulti, dapprima (12 anni dopo la separazione) chattando e poi incontrandosi 24 anni dopo a New York, dove la donna, sceneggiatrice e figlia di un regista, si è definitivamente trasferita e sposata. Il montaggio alternato ricorda l’inesorabile trascorrere del tempo con il continuo emergere dell’indimenticata infanzia che avvince indissolubilmente i due mancati amanti, balugina negli sguardi furtivi, si fissa in quelli insistiti, nei suoni della lingua madre (il film è soltanto parzialmente sottotitolato), nell’antico nome coreano della donna ormai americanizzato in Nora, convalidando la potenza dell’amore inespresso, ma palese, le inestirpabili radici culturali dei due protagonisti che attraversano una New York, megalopoli resa anch’essa protagonista-spettatrice di una storia universale senza tempo, di sentimenti repressi. Sottotraccia lo scontro di culture, la millenaria coreana con tutte le sue credenze e quella contemporanea americana. E poi soprattutto la vita che “avrebbe potuto essere”, ma che non è stata, perché dice il coreano Hae Sung, l’amico d’infanzia, a Nora riferendosi allo sposo di lei e rimarcando la propria appartenenza culturale: “In questa vita, tu e Arthur avete gli ottomila strati di in yung…”, credenza buddista e metempsicotica che indica la condizione necessaria per cui due esseri umani sono destinati ad incontrarsi e stare insieme. Forse solo la metempsicosi, a cui entrambi i protagonisti ancora credono o fingono di credere, terrà in vita e alimenterà la speranza d’incontrarsi e finalmente di amarsi in un’altra vita e lo scoppio di pianto finale di Nora, che abbraccia disperata il marito dopo aver lasciato l’amico Hae Sung, ne conferma il vero amore rimasto per sempre in questa vita un sogno ormai impossibile. Un film sussurrato, magico, lieve e profondo al contempo, nel clamore agitato e scomposto del mondo contemporaneo, che proprio nella pacatezza con cui riesce ad affrontare una storia così drammatica, di sentimenti sopiti ma mai estinti, mantiene altissimi i livelli di emotività per far vibrare intensamente corde profonde dell’animo umano, dentro cui si cela sempre la vita passata.