Nel 2002 introdotto il regime speciale del 41 bis


 

 

Oggetto del presente contributo è il regime detentivo speciale del 41 bis, misura introdotta nel nostro ordinamento per neutralizzare la pericolosità di detenuti che, in virtù dei legami con le associazioni criminali di appartenenza, sono in grado di continuare a delinquere dal carcere. Dopo aver esaminato la disciplina della misura, indagandone i principali problemi interpretativi e valutandone la compatibilità con i principi costituzionali e con la giurisprudenza europea, ci si interrogherà sulle modifiche che, de iure condendo, risultano necessarie per assicurare che tale strumento, ad oggi ancora indispensabile nel contrasto alla criminalità mafiosa, sia espressione di un ragionevole bilanciamento tra le esigenze di prevenzione e la tutela dei diritti fondamentali della persona.

 

Fonte @Treccani

PREMESSA

Il regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis, co. 2, ord. penit. (da ora: 41 bis) è una forma di detenzione particolarmente rigorosa, cui sono destinati gli autori di reati in materia di criminalità organizzata nei confronti dei quali sia stata accertata la permanenza dei collegamenti con le associazioni di appartenenza.

Tale misura è stata introdotta nell’ordinamento all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio (con il d.l. 8.6.1992, n. 306, conv. in l. 7.8.1992, n. 356), per rispondere ad un problema che anche quei drammatici eventi avevano messo in evidenza, ossia l’incapacità della pena detentiva, nella sua ordinaria modalità di esecuzione, di neutralizzare la pericolosità di detenuti che, in virtù dei legami con le associazioni criminali di appartenenza, continuavano dal carcere ad esercitare il loro ruolo di comando, impartendo ordini e direttive agli associati in libertà.

Il regime detentivo speciale, riducendo drasticamente le occasioni di contatto tra i detenuti e l’esterno e tra gli stessi detenuti, ha dunque come scopo quello di interrompere, o meglio ridurre, i collegamenti con le associazioni, così rendendo effettiva la funzione di neutralizzazione propria della pena detentiva.

Se dunque lo scopo del regime detentivo speciale è del tutto legittimo, essendo la stessa Costituzione e, in modo ancora più esplicito, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ad affermare la sussistenza a carico dello Stato dell’obbligo di adottare misure adeguate per la protezione della collettività dalle condotte dei soggetti di cui sia stata accertata la pericolosità (per un’affermazione di questo principio nella giurisprudenza europea cfr. C. eur. dir. uomo, Maiorano c. Italia, 15.12.2009, § 103-104), è però vero che l’estrema afflittività della misura, che discende tanto dalla severità delle restrizioni, quanto dalla durata della loro applicazione, spalanca enormi interrogativi sui limiti entro i quali possano essere compressi i diritti fondamentali della persona, la cui tutela costituisce un obbligo inderogabile di uno Stato di diritto, anche quando si abbia a che fare con i più efferati criminali (per i dubbi espressi in dottrina sulla legittimità costituzionale del 41 bis cfr. Pugiotto, A., Quattro interrogativi (e alcune considerazioni) sulla compatibilità costituzionale del 41 bis, in Corleone, F.-Pugiotto, A., a cura di, Volti e maschere della pena, Napoli, 2013).

IL PRIMO 41 BIS E LA SUA EVOLUZIONE

Nella sua originaria fisionomia, il regime detentivo speciale si configurava come una misura di carattere emergenziale, introdotta nell’ordinamento in via soltanto temporanea: secondo quanto previsto dall’art. 29 del d.l. n. 306/1992, infatti, la disciplina contenuta nel comma 2 dell’art. 41 bis della legge di ordinamento penitenziario doveva avere efficacia solo per tre anni dalla data di emanazione del decreto. L’immediata percezione dell’efficacia della norma, tuttavia, indusse il legislatore a prorogarne in più riprese la validità, sino all’entrata in vigore della l. 22.12.2002, n. 279, che – come diremo – ha reso permanente il regime detentivo speciale all’interno dell’ordinamento.

Nella sua prima formulazione la norma aveva caratteri segnatamente illiberali: il potere di emettere i decreti di applicazione o proroga della misura era attribuita (come peraltro ancora oggi) ad un organo di vertice dell’esecutivo, il Ministro della giustizia, così da consentire di intervenire con tempestività. La natura emergenziale della misura si accompagnava, come peraltro spesso accade, ad un deficit di legalità della stessa, in relazione tanto ai presupposti applicativi, quanto al contenuto e alla durata. Non era poi previsto alcuno strumento per consentire al detenuto una tutela in via giurisdizionale avverso il provvedimento amministrativo.

I caratteri illiberali della misura – non a caso immediatamente marchiata dalla stampa come “carcere duro” – sono stati però smussati dalla Corte costituzionale che, tra il 1993 e il 2002, è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla sua legittimità sotto svariati profili (sugli interventi della Corte costituzionale in materia si consenta rinviare a Della Bella, A., Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Milano, 2016, 115). Attraverso le sue pronunce la Corte – che non ha mai censurato la legittimità del 41 bis, riconoscendone l’utilità nel contrasto al fenomeno mafioso – si è impegnata in un’opera di profonda ricostruzione della disciplina, fissando dei ‘paletti di costituzionalità’, entro i quali l’Amministrazione penitenziaria si è poi mossa nel dare applicazione all’istituto.

Le indicazioni della Corte costituzionale sono state recepite in toto dalla l. 23.12.2002, n. 279, che, oltre ad aver reso stabile la misura all’interno dell’ordinamento, ne ha riformato profondamente la disciplina, attribuendole sostanzialmente la fisionomia che ha tutt’oggi.

Successivamente, con la l. 15.7.2009, n. 94, il legislatore ha modificato in senso restrittivo alcuni profili della disciplina del 41 bis.

LA DISCIPLINA ATTUALE

I presupposti applicativi

Come espressamente esplicitato nel co. 2 bis, scopo del 41 bis è quello di «impedire i collegamenti» tra i detenuti e le associazioni criminali di appartenenza. È questo dunque l’obiettivo cui è funzionalizzata la disciplina che ora, a seguito della riforma del 2002, è contenuta in diversi commi dell’art 41 bis (dal co. 2 al co. 2 septies), che ne regolano i presupposti applicativi, il contenuto, la durata, le impugnazioni giurisdizionali (per un esame approfondito della disciplina cfr. Corvi, P., Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, Padova, 2010; Cesaris, L., Commento all’art. 41 bis, in Della Casa, F.-Giostra, G., Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Padova, 2015, 445).

Come si evince dal co. 2, i destinatari del regime detentivo speciale sono selezionati sulla base di due presupposti.

Un primo presupposto, oggettivo, è relativo al titolo di reato: il 41 bis, infatti, si applica ai detenuti o agli internati «per taluno dei delitti di cui al primo periodo comma 1 dell’art. 4 bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso». Nonostante che l’elenco dei delitti contenuto nell’art. 4 bis sia decisamente nutrito, l’esame dei dati statistici consente di rilevare come, nella prassi, il 41 bis sia una misura applicata quasi esclusivamente agli autori di reati di stampo mafioso (cfr. le statistiche contenute nel Rapporto sul regime detentivo speciale della Commissione parlamentare per la tutela e la promozione dei diritti umani, aprile 2016, da cui si evince che più del 90% dei soggetti sottoposti al 41 bis sono imputati o condannati per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.).

Come si evince dal dato normativo (che parla genericamente di ‘detenuti’), i destinatari del regime detentivo speciale possono essere tanto soggetti con condanne definitive, quanto soggetti in attesa di giudizio: ciò del resto è del tutto coerente con la finalità della misura, posto che le esigenze di prevenzione che essa persegue sussistono anche, ed anzi a maggior ragione, nei confronti di detenuti in attesa di giudizio, essendo proprio nel momento dell’ingresso in carcere che il membro dell’associazione avverte con urgenza il bisogno di comunicare con gli affiliati all’esterno, per trasmettere le informazioni di cui è in possesso, diramare direttive e, più in generale, ‘passare le consegne’. Anche gli internati (ossia i soggetti sottoposti a misura di sicurezza detentiva) possono essere destinatari del 41 bis, ma nella prassi ciò accade molto raramente (secondo le statistiche desunte dal citato Rapporto sul regime detentivo speciale, su un totale di 729 soggetti: 185 sono detenuti in attesa di giudizio, 332 sono condannati definitivi, 208 sono soggetti con ‘posizione mista’ e solo 4 internati).

Al primo presupposto applicativo, se ne affianca poi un secondo, di carattere soggettivo, consistente nella presenza di «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva». Nonostante la formulazione testuale della norma sembrerebbe consentire valutazioni meramente indiziarie, l’Amministrazione penitenziaria è tenuta ad effettuare un accertamento rigoroso, perché solo l’effettiva pericolosità del detenuto rende legittima l’applicazione di una misura così gravemente incidente sui diritti della persona. Di regola, la prova dei collegamenti è desunta da due indici: dal grado di capacità operativa sul territorio dell’organizzazione e dal ruolo rivestito dal soggetto all’interno della stessa. Sotto questo secondo profilo può osservarsi come, nella prassi, la misura sia adottata nei confronti di coloro che rivestono cariche direttive o di coloro che, in virtù dei precedenti rapporti con i vertici, siano in grado di veicolare all’esterno le disposizioni fatte pervenire dai ‘capi’. Anche se non espressamente previsto dalla legge, è chiaro poi che il presupposto della sussistenza dei collegamenti non potrà considerarsi integrato nel caso di collaborazione con la giustizia (tanto nel caso di collaborazione utile ex art. 58 ter ord. penit., quanto di quella impossibile o irrilevante ai sensi dell’art. 4 bis ord. penit.), poiché «la collaborazione con la giustizia …. assume la diversa valenza di criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata» (cfr. C. cost., 20.7.2001, n. 273).

Il contenuto

Secondo quanto stabilito nel co. 2, il regime detentivo speciale comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle esigenze di ordine e di sicurezza e per impedire i collegamenti con le associazioni di appartenenza. Il legislatore, dunque, nel ribadire lo scopo di prevenzione della misura, ne vincola il contenuto alle sole restrizioni che si pongano con quello scopo in una relazione funzionale.

Peraltro, il legislatore ha compiuto uno sforzo di tipizzazione, elencando nel co. 2 quater le restrizioni applicabili: si tratta di prescrizioni che, da un lato, limitano le comunicazioni tra i detenuti e l’esterno; dall’altro, incidono sui rapporti tra i detenuti all’interno dell’istituto.

Appartengono alla prima categoria le limitazioni nei colloqui, nelle telefonate e nella corrispondenza. Quanto ai colloqui con i familiari, la sottoposizione al regime speciale comporta gravose limitazioni non solo nella frequenza, ma anche nella cerchia dei possibili ‘visitatori’ e nelle modalità di svolgimento dei colloqui: i detenuti in 41 bis possono fruire, infatti, di un solo colloquio al mese con i familiari della durata di un’ora (ciò a fronte della disciplina ordinaria che contempla per i detenuti ‘comuni’ il diritto a sei colloqui al mese, più eventuali altri colloqui che possono essere richiesti in presenza di particolari circostanze familiari). Ai colloqui sono ammessi familiari e conviventi, mentre soggetti diversi possono essere autorizzati solo in casi eccezionali. Per quanto riguarda poi le modalità, se nel regime ordinario il colloquio avviene sotto il controllo visivo, e mai auditivo del personale di custodia, e comunque senza mezzi divisori, per i detenuti in 41 bis esso si svolge in appositi locali muniti di vetro a tutt’altezza, per impedire il passaggio di oggetti di qualsiasi natura ed è sottoposto a controllo auditivo e videoregistrazione (salvo la necessità di un’autorizzazione giudiziale per la registrazione dell’audio). La rigidità di tali previsioni è attenuata in presenza di figli o nipoti infra-dodicenni, con i quali il detenuto può avere il colloquio senza vetro divisorio, anche se solo per un lasso di tempo assai ridotto (cfr. le circolari D.a.p. n. 3592 del 9.10.2002 e n. 0101491 del 12.3.2012).

Quanto ai colloqui telefonici, il detenuto in 41 bis ha diritto ad una sola telefonata al mese della durata di dieci minuti, che viene comunque registrata, ma solo in sostituzione del colloquio personale e comunque dopo i primi sei mesi.

A seguito della sentenza della C. cost., 17.6.2013, n. 143 (su cui cfr. Manes, V.-Napoleoni, V., Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di carcere duro: nuovi tracciati della Corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali, in Dir. pen. cont., 2013, fasc. 4), è stata dichiarata incostituzionale la disposizione che limitava il numero dei colloqui e delle telefonate con il difensore, che dunque ora non sono più soggetti a restrizione.

Sempre con riguardo alle comunicazioni con l’esterno, un’altra limitazione riguarda la corrispondenza, sia in partenza, sia in arrivo che, previa autorizzazione giudiziale, è sottoposta a visto di controllo, «salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia».

Un’altra prescrizione diretta a regolare i rapporti dei detenuti con l’esterno è quella relativa alla «limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno»: proprio basandosi su tale disposizione l’amministrazione penitenziaria ha imposto il divieto per i detenuti sottoposti al regime detentivo speciale di ricevere e inviare all’esterno libri e riviste (sulla legittimità di tale divieto cfr. ora C. cost., 8.2.2017, n. 122).

Oltre alle limitazioni sino ad ora indicate, che riguardano i rapporti con l’esterno, il co. 2 quater ne elenca delle altre che attengono ai rapporti tra gli stessi detenuti: in questo senso, la legge prevede l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati e la limitazione della permanenza all’aperto. Per effetto di questa ultima restrizione – che fissa in due ore il tempo massimo di permanenza fuori dalla cella e che indica in quattro il numero massimo di detenuti da cui può essere costituito il ‘gruppo di socialità’ – il regime detentivo speciale viene a caratterizzarsi nella sostanza come una forma di isolamento e ciò induce a dubitare della compatibilità della disciplina legislativa con i principi costituzionali a tutela dei diritti fondamentali della persona, ed in particolare con il diritto alla salute e con il divieto di trattamenti inumani e degradanti, per lo meno nei casi di applicazioni molto prolungate nel tempo.

Occorre poi osservare che la tipizzazione delle restrizioni è per lo meno parzialmente vanificata dalla previsione contenuta alla lett. a) del co. 2 quater, che attribuisce all’Amministrazione penitenziaria il potere di adottare non meglio precisate «misure di elevata sicurezza interna ed esterna». Dello stesso tenore è poi la previsione contenuta nella lett. f), secondo cui «saranno adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi». L’esame della prassi consente di rilevare che la quantità e lo ‘spessore’ delle restrizioni imposte dall’amministrazione sulla base delle lett. a) ed f) è assai rilevante e proprio per questo è fondamentale puntualizzare che tutte queste restrizioni devono comunque considerarsi subordinate al vincolo funzionale stabilito nel co. 2, e che pertanto sono da considerarsi legittime solo laddove necessarie agli obiettivi di prevenzione.

Sempre con riferimento al contenuto, occorre anche osservare che, nonostante la legge taccia completamente sul punto, la sottoposizione al 41 bis comporta la sostanziale assenza di attività trattamentali e rieducative ex artt. 13 e 27 ord. penit. La ratio è del tutto evidente: trattandosi di attività ispirate a una logica di socializzazione tra i detenuti e orientate al percorso di risocializzazione, si pongono in netta antitesi con lo scopo del regime speciale, volto a rafforzare la funzione custodialistica del carcere attraverso la riduzione dei contatti tra detenuti e detenuti e società esterna. Chiaro però che anche in questo caso occorre porsi il problema della compatibilità del regime detentivo speciale da un lato con il principio di umanità del trattamento, leso laddove detenzioni di lunga o lunghissima durata si traducano nella sostanza in forme di isolamento del detenuto dal resto della comunità carceraria e, dall’altro, con il principio della rieducazione, che – pur in forme diverse da quelle ‘ordinarie’ – lo Stato ha sempre il dovere di perseguire, attraverso l’offerta di occasioni che incentivino la fuoriuscita dall’associazione criminale.

Le cd. aree riservate

Secondo quanto stabilito dal co. 2 quater, i detenuti sottoposti al 41 bis devono essere collocati in apposite sezioni, ove sono adottate specifiche «misure di elevata sicurezza interna ed esterna» e devono essere custoditi «da reparti specializzati della polizia penitenziaria».

Tra le sezioni deputate alla custodia dei detenuti in regime speciale, vi sono le cd. aree riservate, ossia delle strutture a sicurezza ulteriormente rinforzata, ove vengono custoditi i ‘grandi capi’, ossia i soggetti più potenti ed influenti all’interno del mondo mafioso. Tali aree – spesso costituite da due sole celle singole, da un passeggio per l’ora d’aria e da una saletta per la socialità – sono caratterizzate dal fatto che il boss ‘eccellente’ vi è detenuto in compagnia di un soggetto, scelto nell’ambito della popolazione dei detenuti sottoposti al regime detentivo speciale, che viene lì collocato al precipuo fine di consentire la socialità del boss. Come la dottrina ha osservato, la prassi delle aree riservate suscita non poche perplessità. In primo luogo per la totale mancanza di regolamentazione della materia: le aree riservate esistono ‘nei fatti’, nel senso che di esse non si trova traccia non solo nella legge, ma nemmeno in atti di fonte subordinata, come i regolamenti o le circolari; in secondo luogo, perché all’interno delle stesse l’isolamento è ancora più intenso, riducendosi la socialità all’incontro tra due detenuti (e non quattro, come la regola); infine, perché per il detenuto che accompagna il boss eccellente, la collocazione nell’area riservata si traduce in una inaccettabile strumentalizzazione della persona (cfr. sul punto i rilievi di Palma, M., Il regime del 41 bis visto da Strasburgo e dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, in Corleone, F.-Pugiotto, A., (a cura di), Volti e maschere della pena, cit., 171; nonché Fiorio, C., L’isola che non c’è: ‘area riservata’ e art. 41 bis o.p., in Giur. it., 2014, 2862. In giurisprudenza, nel senso invece che le aree riservate sono soluzioni meramente logistiche che non incidono sui diritti del detenuto Cass. pen., 15.10.2013, n. 6152 e C. eur. dir. uomo, Madonia c. Italia, 22.9.2009).

Applicazione e proroga: la questione della durata

In base al co. 2 bis, i provvedimenti di applicazione del regime speciale sono adottati con decreto motivato del Ministro della giustizia, anche a richiesta del Ministero dell’interno, dopo aver sentito il parere «del pubblico ministero che procede alle indagini, ovvero di quello presso il giudice che procede» e dopo aver acquisito «ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia e gli organi della polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell’ambito delle rispettive competenze».

L’attribuzione della competenza a un’autorità amministrativa solleva la questione della compatibilità di tale regime con l’art. 13 Cost., essendo innegabile che il regime detentivo speciale comporta una compressione dello spazio di libertà personale di chi vi è sottoposto che va ben oltre a quello che deriva dall’esecuzione della pena detentiva in regime ordinario.

Sempre il co. 2 bis, stabilisce la durata del provvedimento ministeriale in quattro anni, con possibilità di proroga «quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno». Secondo quanto chiarito dalla legge, ai fini dell’accertamento della sussistenza di tale ‘capacità’ occorre tener conto «del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto». Come osservato dalla dottrina e come chiarito anche dalla Corte di cassazione il requisito della capacità di mantenere i collegamenti, che sottende una presunzione relativa di pericolosità del detenuto, deve esser oggetto di un accertamento effettivo onde evitare scorciatoie probatorie che rendano di fatto automatica la proroga. Il rigore poi dovrà essere tanto maggiore, quanto più il 41 bis è prolungato nel tempo.

Secondo quanto risulta dai dati statistici, il regime detentivo speciale si caratterizza per essere una misura ‘imbutiforme’, nel senso che il numero dei soggetti che vi fanno ingresso annualmente è molto maggiore del numero di quelli che ne escono. In generale, possiamo dire che il 41 bis è applicato per periodi molto lunghi di tempo (non sono rari infatti i casi di soggetti sottoposti al regime detentivo speciale da più di venti anni. Cfr. sul punto le statistiche contenute nel Rapporto sul regime detentivo speciale, cit.). Ed è proprio la lunga durata del regime a costituire uno dei profili più critici della misura: da un lato, infatti, la tendenziale definitività del vincolo associativo rende sensato l’utilizzo del 41 bis solo se prolungato nel tempo; dall’altro però la lunga permanenza in uno stato di isolamento quasi assoluto pone in modo molto serio il problema della tutela dei diritti fondamentali della persona (si pensi, in primis, al profilo della salute, anche psichica, ed al divieto di trattamenti inumani).

Il reclamo

Secondo quanto disciplinato dai commi 2 quinquies e sexies dell’art. 41 bis ord. penit., contro i provvedimenti di applicazione e di proroga del regime detentivo speciale, il detenuto o l’internato, o i loro difensori, possono proporre reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma, in merito alla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento. Contro l’ordinanza del Tribunale il detenuto, l’internato (o i loro difensori), nonché il pubblico ministero possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge. Quanto al procedimento, le citate disposizioni delineano una disciplina speciale da integrarsi, per quanto non previsto, con la disciplina dettata dagli artt. 678-666 c.p.p. per il procedimento di sorveglianza.

Se l’introduzione di questa disciplina ha colmato una grave lacuna (poiché originariamente non era previsto alcuno strumento di tutela giurisdizionale), rimangono tuttavia diversi profili critici. Oltre alla problematica concentrazione della competenza sul tribunale di sorveglianza di Roma, sulla cui ragionevolezza sono stati sollevati svariati dubbi in dottrina (cfr. sul punto la relazione del Tavolo II degli Stati generali dell’esecuzione, in www.giustizia.it), la questione più rilevante riguarda la mancata previsione del sindacato giurisdizionale sul contenuto del provvedimento (cfr. Della Casa, F., Interpretabile secundum Constitutionem la normativa che ha dimezzato il controllo giurisdizionale sulla detenzione speciale? in Giur. it., 2010, 12): una carenza cui si rimedia in via interpretativa attraverso il reclamo al magistrato di sorveglianza disciplinato dall’art. 35 bis ord. penit., utilizzabile in caso di inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni dalle quali derivi al detenuto o all’internato “un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”.

IL 41 BIS NELLA GIURISPRUDENZA DELLA C. EUR. DIR. UOMO

Ai fini della valutazione di conformità del 41 bis con gli standard di tutela dei diritti umani a livello sovranazionale, è certamente necessario esaminare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha affrontato in diverse occasioni la questione della compatibilità con i principi convenzionali dei regimi detentivi di rigore, occupandosi specificamente anche del nostro 41 bis.

Pur non essendo uscito sempre indenne dal vaglio di Strasburgo (si pensi al profilo dei controlli sulla corrispondenza del detenuto, la cui disciplina – ritenuta in contrasto con l’art. 8 CEDU – è costata diverse ‘condanne’ al governo italiano), il 41 bis è stato sino ad ora ritenuto compatibile con l’art. 3 CEDU (che come noto vieta la tortura e i trattamenti disumani e degradanti), in considerazione, da un lato, del carattere solamente relativo dell’isolamento cui sono sottoposti i detenuti e, dall’altro, delle rilevanti esigenze di prevenzione che esso persegue (sulla giurisprudenza della Corte europea in materia di 41 bis cfr. Minnella, C., La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul regime carcerario ex art. 41 bis o.p. e la sua applicazione dell’ordinamento italiano, in Rass. penit. crim. 2004, 197).

Alla luce della giurisprudenza più recente in materia di regimi detentivi speciali, non è da escludere, tuttavia, un possibile revirement della Corte. Vengono in considerazione, a questo proposito, alcune pronunce che – occupandosi della compatibilità con l’art. 3 CEDU della permanenza per periodi di tempo molto lunghi in regimi speciali caratterizzati da forme di isolamento molto intensi (simili nella sostanza al nostro 41 bis) – hanno affermato il principio secondo cui un regime detentivo di rigore che implichi una forma di isolamento, anche se soltanto relativo, non può essere imposto a tempo indeterminato, per gli effetti dannosi che ne possono derivare sulla salute fisica e psichica del detenuto (cfr. C. eur. dir. uomo, Ocalan c. Turchia, 18.3.2014).

La lettura di tale sentenza ci induce a ritenere che il ‘fattore tempo’ abbia acquisito un peso determinante nella valutazione di compatibilità dei regimi detentivi speciali con l’art. 3 CEDU: pur rilevando che le recenti pronunce della stessa Corte quando si occupano di 41 bis sembrano del tutto insensibili a questa svolta della sua giurisprudenza, crediamo che risulterà sempre più arduo giustificare la legittimità di un’applicazione così prolungata del regime detentivo nel prossimo futuro.

Ciò detto, occorre però intendersi su di un profilo essenziale: affermare che l’applicazione prolungata del 41 bis può tradursi in un trattamento inumano non può portare lo Stato a trascurare le esigenze di prevenzione cui il regime è finalizzato e che lo Stato è tenuto a perseguire anche in forza dell’art. 2 CEDU. In questo senso, la Corte ha invitato gli Stati membri a trovare soluzioni alternative: «…it would be desirable for alternative solutions to solitary confinement to be sought for persons considered dangerous and for whom detention in an ordinary prison under the ordinary regime is considered inappropriate» (C. eur dir. uomo, Piechowicz c. Polonia, 2012, § 164).

CONCLUSIONI

Una volta riconosciuta la serietà delle esigenze di prevenzione speciale che stanno alla base del regime detentivo speciale e toccato con mano, d’altro canto, il carico afflittivo che esso comporta, occorre riflettere su di una possibile rifondazione di questa misura, nella convinzione che essa resti un indispensabile strumento di difesa sociale da conservare nell’ordinamento, entro il quadro però dei principi posti dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali dei diritti dell’uomo.

In particolare, occorrerebbe abbandonare l’idea, fuorviante, secondo cui il 41 bis è solamente una particolare modalità di esecuzione della pena detentiva e sarebbe piuttosto opportuno guardare a questa misura come ad una vera e propria pena: una sanzione autonoma, che realizza un sacrificio ulteriore della libertà e dei diritti fondamentali del detenuto, e che deve essere pertanto circondata da tutte le garanzie proprio dello ius punitivo.

In questo senso, de iure condendo, si impone una rilettura del regime detentivo speciale alla luce dei principi penalistici (da quello di legalità, a quello dell’irretroattività, della giurisdizionalizzazione ed anche di proporzione), così da farne una sanzione che sia espressione di un bilanciamento ragionevole tra le esigenze di prevenzione e la tutela dei diritti fondamentali della persona (per una proposta in questo senso sia consentito rinviare ancora a Della Bella, A., Il ‘carcere duro’, cit., 369).

FONTI NORMATIVE

Art. 41 bis co. 2 ss. l. 26.71975, n. 354; Cost. artt. 3, 27, co. 3; CEDU artt. 2, 3, 8.