Mary Wollstonecraft


 

Di Marco Todeschini

Fonte @Enciclopediadelledonne

Chiedete a qualcuno se il cattivo era il dottor Jeckill o Mr Hyde: nove su dieci diranno Jeckill, che invece era la metà tranquilla. Chiedete a qualcuno chi era Frankenstein. Nove su dieci diranno che era il mostruoso uomo artificiale, invece, era lo scienziato che lo aveva fabbricato. Gli informati sanno che è il protagonista di un romanzo e i più informati sanno pure che fu scritto da Mary Shelley. Ma il cognome della scrittrice era quello del marito, perché Mary era nata Wollstonecraft.
Alcuni sono conosciuti come “figlio o figlia di”, altri come “padre o madre di”: qui è il primo caso e questa Mary era nata figlia di un’altra Mary Wollstonecraft che, assai meno nota, se ricordata, lo è come la madre di Mary Shelley, la moglie del poeta. La scrittrice si chiamò Mary perché la madre, dopo il parto, morì di setticemia: si può pensare a una continuità transgenerazionale per cui la fama della figlia richiama l’attenzione sulla madre, che fu brillante e battagliera. Nata il 2 aprile 1759 in un sobborgo di Londra, trascorse un’infanzia disagiata. Il padre era stato tessitore, poi agricoltore, ma senza successo e la famiglia si era impoverita. Poco più che ventenne lasciò la casa paterna per guadagnarsi da vivere. Se divenne assai colta, e fu pensatrice e scrittrice, non fu attraverso la scuola ma grazie alla sua volontà e ad amicizie colte. La sua formazione, un po’ accidentata, non fu affatto carente. I suoi scritti mostrano padronanza della Bibbia, conoscenza dei classici, di Shakespeare e di Milton. Tuttavia, per la sua posizione sociale, le sue prospettive apparivano limitate: al più avrebbe potuto diventare governante o maestra di scuola. Infatti, fu poi lei stessa, con le sue sorelle ed un’amica, ad aprire una scuola, nel 1768, per guadagnarsi da vivere; poi fu governante in Irlanda. Ma va ricordato che era una critica acuta e buona traduttrice e queste due competenze le fecero conoscere pensatori come Leibniz e Kant. Tradusse molti libri e ogni volta apparivano come suoi propri, sia perché concordava con gli autori, sia perché in sostanza li ri-scriveva.
Nel 1787 cominciò a collaborare con la rivista «Analitical Review» e a frequentare il circolo di intellettuali dell’editore Joseph Johnson, che comprendeva William Blake, Thomas Paine, Joseph Priestley e il pittore Heinrich Füssli. A quell’anno risale il suo primo scritto: si tratta di Thoughts on the education of daughters: with reflections on female conduct, in the more important duties of life (Pensieri sull’educazione delle figlie: con riflessioni sul comportamento delle donne, nei doveri più importanti della vita), pubblicato dall’amico editore Johnson. È un manuale di comportamento che dà consigli sull’educazione femminile, indirizzati in particolare all’emergente classe media. Benché prevalgano questioni di moralità e galateo, contiene istruzioni di base per l’educazione delle bambine, fino alle cure da riservare ai neonati. L’autrice aveva osservato attentamente le allieve della sua scuola e voleva fornire le proprie idee sull’educazione delle donne che, a suo avviso, non avevano inferiori qualità di apprendimento rispetto agli uomini. Un suo celebre aforisma dice: «Chi ha reso l’uomo il giudice esclusivo, se la donna condivide con lui il dono della ragione?». Pensava che tutto cominciasse con l’educazione, che la ragione dell’assoggettamento delle donne fosse da ricercare nell’ignoranza e nella condizione di esclusione dalla civitas.
A Parigi, nel fervore della rivoluzione, Condorcet aveva pubblicato (1791) un Elogio dell’istruzione pubblica, dove affermava che provvedere all’istruzione è dovere dello stato, il quale però non può imporre le proprie regole all’educazione. Che Mary Wollstonecraft, molto attenta alla rivoluzione dell’89, ne avesse avuto conoscenza è verosimile. Nel 1792, forte della convinzione che l’educazione fosse fondamentale per la liberazione delle donne pubblicò il libro Vindication of the rights of woman, (Rivendicazione dei diritti della donna). L’opera è centrata sulla critica al sistema educativo dell’epoca, che trascurava le donne e impiegava modalità inadeguate. «Se le donne non sono uno sciame di frivole efemere, perché tenerle in un’ignoranza camuffata da innocenza? Gli uomini si lamentano, a buon diritto, delle follie e dei capricci del gentil sesso, e fanno dei nostri vizii abietti e delle nostre passioni ostinate oggetto di satira pungente. Osservate, rispondo io, la naturale conseguenza dell’ignoranza! L’intelletto che può fondare le sue basi solo sui pregiudizii sarà sempre instabile, e la corrente procederà con furia distruttiva se non vi sono barriere a frenarne la forza». Chiara l’importanza civile e politica dell’istruzione come diritto primario ed essenziale: al punto di contestare duramente anche Rousseau.
Tanto solido era l’ingegno di Jean Jacques Rousseau che se lo contendono filosofi, sociologi, politologi e pedagogisti; la sua moralità, per contro, era alquanto pieghevole: è noto che abbandonò all’assistenza pubblica la sua prole. Malgrado questo (o forse proprio per questo) moraleggia su doveri e diritti. Nell’Emile (1762) attribuisce alla donna il ruolo di madre e nutrice: ruolo nobilissimo, ovviamente, a giudizio del filosofo, ma guai alle donne che non ne erano degne, come quelle che non allattavano i figli, affidandoli alle nutrici: «A quelle donne non basta, sbarazzatesi dei figli, abbandonarsi felici ai divertimenti… ormai non vogliono neppure metterne al mondo». La indipendenza di giudizio di Mary Wollstonecraft è assoluta: l’ammirazione per Rousseau non le impedisce di dare un giudizio severo sulla sua teoria dell’educazione, che non usa mezzi termini: «Le considerazioni di Rousseau, secondo cui le donne sono naturalmente interessate a bambole, vestiti e conversazioni, del tutto indipendentemente dall’educazione, sono talmente puerili da non meritare neppure di essere seriamente confutate».
Il sistema educativo in voga si basava su libri scritti da uomini che consideravano la donna non come semplice essere umano, ma come “femmina” subordinata, cui doveva essere inculcato il dovere di essere gentile, educata, obbediente, decorosa, bella, al fine di poter trovare un marito che la “sistemi”. Le donne venivano quindi trattate come un animale domestico e tenute in una perpetua fanciullezza. Il ragionamento della scrittrice in merito è piuttosto semplice: poiché si ritiene la donna dotata di virtù inferiori all’uomo? Se l’educazione di entrambi avesse seguito gli stessi metodi e principii, le donne sarebbero giunte dove di norma giungevano gli uomini. Succedeva pure che una donna d’interessi e virtù elevate venisse definita con disprezzo “mascolina”; ma Wollstonecraft nota che non era affatto strano che molte donne avessero più buon senso dei loro coniugi. «Se le donne sono per natura inferiori all’uomo, le loro virtù devono essere le stesse in termini di qualità, se non di grado, altrimenti la virtù stessa diviene un concetto relativo; di conseguenza la loro condotta dovrebbe fondarsi sugli stessi principii e avere gli stessi fini».
Quasi tutti i pedagogisti sono concordi nell’osannare l’Emile come vetta della riflessione pedagogica; forse è vero che lo sia, però in negativo, in quanto è il sommo esempio di ciò che, anche se fosse praticabile, non si può proporre come modello, in quanto si elimina radicalmente la dimensione della socialità ed Emilio cresce avendo come unico interlocutore il precettore; e comunque, se quello schema richiede un educatore per ciascun educando, non sarebbe certo replicabile.
Mary Wollstonecraft apre così il capitolo 12 della sua Vindication of the Rights of Woman, intitolato On National Education: «[…] Un uomo non può ritirarsi nel deserto col suo bambino e, anche se lo facesse, non potrebbe riportarsi indietro alla propria infanzia e diventare l’amichetto e il compagno di giochi di un bambino o un ragazzino. E quando i bambini sono confinati nella società degli uomini e delle donne, ben presto acquistano quella specie di condizione adulta prematura che blocca la crescita di ogni vigore della mente e del corpo. Per sviluppare le loro facoltà dovrebbero essere sollecitati a pensare da sé; ciò si può fare solamente mescolando insieme un certo numero di bambini per farli esercitare insieme verso gli stessi obiettivi. Un bambino cade presto in una sorta di torpida indolenza mentale e di rado avrà poi il vigore sufficiente a liberarsene, quando sta solo a far domande invece che a caccia d’informazioni e allora implicitamente si adagia sulle risposte che riceve. Con i coetanei non potrebbe succedere e gli oggetti d’indagine, benché possano essere orientati, non sarebbero totalmente diretti da persone che frequentemente soffocano, se non distruggono le capacità, forzandole ad emergere troppo in fretta: e sarebbero senz’altro spinte troppo in fretta se il bambino fosse vincolato al rapporto con una sola persona, per quanto sagace possa essere.»
Ce n’è abbastanza per dire che l’illustre poeta amico di Lord Byron era il genero di Mary Wollstonecraft (anche se non ebbe l’occasione di conoscerla).