Sotto il primo aspetto è possibile e ragionevole scindere e distinguere sotto il profilo soggettivo le teorie dell’interpretazione in base ai soggetti tipici. Infatti, la fonte soggettiva da cui deriva l’interpretazione crea di fatto: l’interpretazione autentica, promanante dal legislatore, quella giudiziale meglio nota come giurisprudenziale di cui oratori e relatori sono gli stessi giudici chiamati all’applicazione concreta del dettato normativo, e a chiusura quella dottrinale la cui fonte sono i giuristi e più in generale gli operatori del diritto.
(Avv. Vincenzo Randazzo)
L’interpretazione è il risultato pratico e concreto di un procedimento logico-psichico che comporta la sussunzione di un caso alle norme che lo riguardano. Trattasi dunque di attività volta al raggiungimento di un risultato non necessariamente previsto e voluto ma concretamente ricercato.
L’origine latina del termine interpretazione (da interpretatio) implica in sé un connubio di procedimenti mentali e vocali. La spiegazione soggettiva del significato di qualcosa cioè non può prescindere da una disamina interiore svolta da chi interpreta, nel capire per primo il significato del testo o del concetto sottoposto alla sua visione, e successivamente nel portarlo a conoscenza dello spettatore attraverso l’arte della retorica. Il motivo dell’utilizzo di predetta arte è riconducibile all’operare soggettivo dell’interpretazione, in quanto appare ovvio che il semplice sillogismo o la composizione di un discorso venga naturalmente colto non nel suo essere, ma nel suo apparire, diverso a seconda di chi lo legge. Dissimilmente dovremmo attingere ai principi di un’arte, diversa dalla retorica che è la maieutica, attraverso la quale si ricerca il pensiero personale altrui con lo scopo di argomentare e criticare, ma allo stesso tempo apprendere nutriti punti di vista.
A seconda del campo di riferimento l’operare dell’interpretazione è mutevole e presenta notevoli sfaccettature. Il campo che ci impegna determina, in tema di interpretazione, il passaggio dall’astratto al concreto, riconducendo, ove possibile le caratteristiche di una fattispecie incriminatrice al caso concreto. Secondo tale prospettiva la locuzione «interpretazione della legge penale» designa il complesso delle operazioni intellettuali finalizzate all’individuazione del significato delle norme da applicare.[1]
Negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, cospicui sono stati e continuano ad esserlo oggi, gli operatori del diritto promananti tesi dottrinarie tanto sulle classificazioni quanto sulla sostanza dell’interpretazione nel diritto penale.[2] L’evoluzione delle tesi in questione trae le mosse dal dettato normativo ex art. 12 delle disposizioni preliminari del Codice Civile dal quale promanano due profili cui deve basarsi l’interprete nell’applicare la legge. In primis il significato proprio delle parole e la connessione fra le stesse ed in secondo luogo
l’intenzione del legislatore.[3] Sotto il primo aspetto è possibile e ragionevole scindere e distinguere sotto il profilo soggettivo le teorie dell’interpretazione in base ai soggetti tipici. Infatti la fonte soggettiva da cui deriva l’interpretazione crea di fatto: l’interpretazione autentica, promanante dal legislatore, quella giudiziale meglio nota come giurisprudenziale di cui oratori e relatori sono gli stessi giudici chiamati all’applicazione concreta del dettato normativo, e a chiusura quella dottrinale la cui fonte sono i giuristi e più in generale gli operatori del diritto.
Tralasciando l’influenza della fonte dalla quale scaturisce interpretazione e ancorando il discorso al dettato normativo, sembrerebbe implicito nel citato art. 12 delle preleggi, l’obbligo per il giudice di risolvere la controversia allo stesso sottoposta. Quest’ultimo si affrancherà del medesimo dettato normativo che, lungi dall’essere incompleto, fissa in subordine ai due profili in esame, i criteri per la risoluzione di quei casi non espressamente regolati dalla legge e che cadranno per sussunzione all’interno dei corollari dei profili del citato articolo, ossia l’analogia e i principi generali dell’ordinamento. La prima opererà per tutti quei casi che possono ottenere risposta e dunque soluzione attraverso il ricorso e
l’ausilio di norme che disciplinano casi simili sotto il profilo giuridico. Ove anche questa possibilità fosse superata dalla mai poca fantasia dei casi concreti o da prescrizioni normative quali ad esempio quelle ex art. 14 delle preleggi, allora si farà esclusivo riferimento ai principi generali e costituzionali dell’ordinamento giuridico.[4]
Se da un lato il legislatore, al fine di contenere la soggettività dell’interprete e rendere il più possibile oggettivi e prevedibili i risultati dell’interpretazione, ha elaborato i suddetti criteri, dall’altro hanno rappresentato un valido e concreto sussidio le numerose tesi dottrinarie più o meno condivisibili, nell’elaborare criteri di interpretazione volti allo stesso modo dei primi ad ancorare o meglio arginare la posizione personale e dunque soggettiva di chi è chiamato all’interpretazione e applicazione del precetto penale.
Data la distinzione basata sul criterio soggettivo, è possibile una disamina su criteri di matrice dottrinaria ancorati a parti del dettato normativo ex art. 12 delle disposizioni preliminari al Codice Civile e scaturenti in dissimili impostazioni metodologiche che, come si vedrà, non possono e non devono operare singolarmente, trovando dunque necessario il combinato fra le stesse.
I criteri di interpretazione sono prevalentemente tre: il criterio letterale, logico e teleologico. L’ordine di trattazione non è casuale e trae le mosse dalla convinzione che il passaggio logico cui scaturisce l’interpretazione deve necessariamente avere origine dal testo normativo e dunque da una sua lettura prima facie, attraverso la quale si darà un senso alle parole ( criterio letterale)[5].
Le norme giuridiche oggi, a differenza di quanto accadeva nel passato, principalmente in epoca pre-giustinianea e successivamente all’esegesi della
codificazione, sono contenute in proposizioni scritte, il cui significato deve essere di facile comprensione per il soggetto dotato di intelligenza media. Va da sé, dunque, l’assunto secondo il quale, date le premesse, il linguaggio legislativo dovrebbe coincidere con quello comune ed essere scarno di profili tecnico-professionali, giungendo subito nell’immaginario del lettore. Ovviamente così non è, infatti non sono rari i casi in cui il legislatore utilizzi termini con un significato tecnico-giuridico molto particolare.[6] Naturale conseguenza di una simile impostazione sarà riconducibile al principio secondo cui l’interpretazione letterale da sola è insufficiente ed incompleta. Si rende a tal proposito necessario integrare il criterio letterale con quello logico e teleologico. Il primo è chiaramente indispensabile per qualsivoglia interpretazione, in quanto il punto nevralgico cui poggia le basi è lo studio del ragionamento e dell’argomentazione e la sua matrice greca (λόγος, logos) porta con sé lo zelo dei procedimenti inferenziali risultando utile se non indispensabile ai fini della nostra causa. Attraverso la logica, infatti, non solo si dà un senso compiuto a proposizioni che da sole potrebbero anche non significare nulla, ma si rende necessaria una disamina per lo più interiore su quali procedimenti di pensiero siano validi e quali no. Ciò non vale presumibilmente solo per procedimenti volti a formulare deduzioni traendo informazioni da un oggetto reale (formulazione di inferenze[7]), ma risulta utile anche per concetti o principi ritenuti in epistemologia veri e propri assiomi.[8]
Seguendo una linea di principio coerente con le premesse risulta lampante che, cosa diversa è interpretare un testo giuridico rispetto ad altri testi con connotati
specialistici ma non di matrice giuridica, in quanto, seppur di derivazione comune altra cosa è la metodologia giuridica intesa non come corrente filosofica in senso stretto[9] ma come tecnica di interpretazione dei testi rispetto a qualsivoglia metodologia. Più nello specifico l’interpretazione logica consente di aprire le maglie delle catene della sola interpretazione letterale, estendendo la portata di un discorso ben oltre il semplice e comune significato delle parole. Tuttavia nonostante l’apparire oggettivo di tale tecnica o principio di interpretazione, traendo le mosse da un ulteriore canone ermeneutico che è il criterio storico, non si può fare a meno di notare come, essendo l’uomo e il suo pensare figlio del periodo storico cui appartiene, e dunque diverso a seconda del periodo di riferimento, anche il criterio logico incontra il limite soggettivo legato all’interprete, seppur sotto aspetti e profili diametralmente diversi rispetto al criterio letterale. Per superare o forse contenere la problematicità legata a quanto suddetto, occorrerebbe “per chi produce o interpreta il diritto una formazione nuova, che si nutra di categorie in parte antiche, ma in qualche modo soffocate dalle incrostazioni ideologiche del giuspositivismo, e in parte nuove perchè nuove sono le esigenze dei tempi”[10]. Secondo tale impostazione si eviterebbe di utilizzare conoscenze ed esperienze maturate in altri campi, all’interno del mondo giuridico grazie ad una formazione che tenga conto di molteplici fattori ma soprattutto del continuo cambiamento della societas.
Il criterio storico, inoltre, ben si sposa con l’ulteriore criterio in esame che è quello teleologico, in quanto sotto profili diversi ma complementari, entrambi si nutrono della ricerca volta a delineare o tracciare le linee guida dell’intenzione del
legislatore. Se per un verso il criterio storico mira a ricostruire la volontà espressa dal legislatore al momento dell’emanazione delle norme[11] , l’interpretazione teleologica mira ad attualizzare la medesima volontà al momento odierno. Se così non fosse, il sistema non potrebbe progredire e resterebbe ancorato al volere di un legislatore che ha emanato tale sistema in un periodo storico in cui non esistevano le esigenze oggi riscontrabili e probabilmente non erano neanche prospettabili in sede preparatoria. Inoltre in dottrina molto si discute sul senso del concetto di volontà che, lungi dall’essere pacifico ,si accosta ad almeno due profili c.d. della volontà soggettiva, ancorata al dato psicologico, e la c.d. volontà storica obiettivata dalla legge, che va al di là delle intenzioni dei compilatori storici della norma e tiene conto di altri aspetti[12].
Nonostante l’approdo maggioritario in dottrina al secondo concetto di volontà, gli odierni sistemi giuridici mal si sposano con siffatta impostazione. Infatti applicando il criterio storico secondo l’attuale impostazione, risulterebbe necessario ricostruire il volere storico del legislatore e dunque l’intentio dello stesso attraverso l’analisi dei lavori preparatori che innanzitutto potrebbero essere insufficienti nel descrivere l’iter legislativo affrontato, ed in secondo luogo non necessariamente l’oggetto della norma è il frutto di un iter vero e proprio, essendo spesso il risultato di un compromesso politico in risposta ad una determinata esigenza sociale in un dato momento storico. Ciò vale come critica a tal principio qualora l’interprete lo utilizzi in via esclusiva, altrimenti ove concorra insieme al criterio letterale, logico e come si vedrà con quello teleologico, risulterà essere un utilissimo strumento di indagine verso la ratio legis.
L’utilizzo combinato dei vari criteri di interpretazione rispecchia con ogni probabilità il motivo e la ratio sottesa alle norme che disciplinano l’interpretazione in generale. Sembrerebbe infatti che l’impostazione della norma rispecchi o sia riconducibile al principio di Montesquieu, figlio della Rivoluzione Francese del 1789, della separazione dei poteri[13]. Da una parte si presuppone l’imprescindibilità dell’interpretazione della norma nel suo senso più ampio, di ragionamento effettuato necessariamente in fase antecedente all’applicazione della stessa, e d’altra parte si rivede un po’ il classico atteggiamento di diffidenza del potere legislativo, seppur sotto canoni ristretti e legittimi, nei confronti dell’esecutivo che, a seconda dell’orientamento politico prende di mira determinati aspetti, e nei confronti della giurisdizione, cui la Carta Costituzionale garantisce indipendenza.
[1] Sull’interpretazione delle leggi penali in generale e per una disamina dei canoni ermeneutici: G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale parte generale, Bologna, Zanichelli Editore, 2010, 113 ss.
[2] Numerose sono gli autori cui fare riferimento, in particolare sulle implicazioni penalistiche delle teorie dell’interpretazione: Shunemann, Die Gesetzesinterpretation im Schnittfeld von Sprachphilosophie, Staatsverfassung und juristicher Methodenlehre, in Festschrift fur U. Klug, Koln, 1983, 169 ss.
[3] Art 12 Disposizioni preliminari al Codice Civile comma 1.
[4] Così recita l’art. 14 Disp.Prel. cc; le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati; nello specifico è possibile fare riferimento all’art. 20 L. 7 gennaio 1929, n. 4, per le disposizioni penali delle leggi finanziarie.
[5] Tale canone ermeneutico è per tradizione definito grammaticale o semantico ed è principalmente volto alla ricognizione del significato della fattispecie considerata come insieme di segni linguistici ossia da quel linguaggio volto ad esprimere un determinato significato, in particolare sul concetto di “precomprensione” nell’attività interpretativa: Esser, precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, trad. it., Napoli, 1983.
[6] A tal proposito un significato tecnico-giuridico particolare assumono i termini: alimenti (art.433 cc), frutti (art 820 cc), ecc.
[7] Così definite in linguistica e nello specifico nello schema di Roman Jakobson che individua e definisce la lingua come insieme di segni utili alla comunicazione. Secondo tale impostazione esiste il solo oggetto, interpretato come messaggio venendo meno la figura dell’emittente volontario.
[8] In epistemologia è sostanzialmente un principio dato per vero o assunto come tale sotto due possibili profili: o in quanto punto di riferimento basilare per l’argomentazione di un fatto o evento, o perchè evidente e indiscutibile.
[9] Il riferimento è la corrente filosofica dell’ermeneutica giuridica, conosciuta come interpretativismo giuridico, che a partire dal XX secolo si sviluppa maggiormente in Europa e in America. Sostanzialmente divenne una vera e propria corrente filosofica sotto l’influenza di Hans-Georg Gadamer che trovò nel campo del diritto importante applicazione. Inoltre, a Ronald Dworkin è nei fatti associato l’interpretativismo inteso come corrente sviluppatasi in opposizione e forte contrasto al positivismo giuridico di Hans Kelsen.
[10] A. Costanzo, L’argomentazione giuridica, Milano, Giuffrè Editore, 2003, 21 ss.
[11] Cfr., Loos, Bermerkungen zur «historischen Auslegung», in Festschrift fur R. Wassermann, Luchterhand, 1985, 123 ss.
[12] Cfr., Stratenwerth, Zum Streit der Auslegungsteorien, in Festschrift fur D.A. German, Bern, 1969, 258 ss.
[13] Montesquieu, De l’Esprit des Lois, Libro XI, cap. VI.