Le interviste degli altri (IL RIFORMISTA – «È DA LOMBROSIANI PENSARE CHE SE NON TI PENTI SEI MAFIOSO PER SEMPRE»)


Il Riformista (Italy)

aprile 2021

Angela Stella

Davigo, Caselli, Di Matteo, la schiera dei difensori dell’ergastolo ostativo è più agguerrita che mai. A pochi giorni dalla decisione della Consulta ne abbiamo parlato col famoso giurista, che dice: «Assurdo piegare la Costituzione alla logica dell’antimafia»

Apochi giorni dalla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, in particolare sulla norma che preclude la liberazione condizionale per i detenuti non collaboranti, riflettiamo insieme a Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, sulle polemiche scaturite recentemente soprattutto da parte della magistratura antimafia. In particolare, in merito alle dichiarazioni di Nino di Matteo, Fiandaca ci dice: «Egli assolutizza in maniera incondizionata la lotta alle mafie, finendo implicitamente anche col leggere tutta la Costituzione sub specie mafiae o meglio sub specie antimafiae: il che non sembra costituzionalmente plausibile e ragionevole».

Professore innanzitutto come giudica la posizione assunta dall’Avvocatura dello Stato la scorsa settimana davanti ai giudici costituzionali chiamati a decidere nuovamente sull’ergastolo ostativo?

È verosimile che l’Avvocatura dello Stato abbia preso atto della fondatezza difficilmente contestabile delle argomentazioni poste alla base della eccezione di costituzionalità sollevata dalla Corte di Cassazione. Del resto, queste argomentazioni derivano da un coerente sviluppo dei principi affermati dalla stessa Corte Costituzionale nella ormai celebre sentenza 253/2019 in tema di ergastolo ostativo e permessi premio. Qualcuno sospetta anche che l’Avvocatura dello Stato abbia potuto ricevere un input da parte della Ministra Cartabia, una costituzionalista notoriamente sensibile ai diritti fondamentali dei detenuti e quindi anche ad un eguale riconoscimento del diritto alla rieducazione a prescindere dal fatto che si tratti di detenuti comuni o detenuti mafiosi.

Ritiene che il tempo che si sono presi i giudici per decidere dopo Pasqua possa anche derivare dalla pressione mediatica che si è scatenata al termine dell’udienza?

Non ho elementi per affermarlo né per escluderlo. In realtà la questione oggetto di decisione è molto impegnativa e come sappiamo all’interno della stessa Consulta non c’è piena concordanza di vedute sull’ergastolo ostativo, come è anche emerso in occasione della precedente sentenza costituzionale; per cui è possibile che i tempi lunghi di elaborazione della decisione non siano dovuti soltanto al peso esercitato da pressioni e preoccupazioni esterne.

In un articolo di due giorni fa sul Fatto Quotidiano Piercamillo Davigo ha scritto: «Quando si considera che cosa è accaduto a magistrati italiani nonostante le protezioni, sarà possibile far comprendere perché, qui e ora, sia preferibile che in questa materia la discrezionalità del giudice sia sostituita dal divieto di legge, per evitare minacce e pressioni irresistibili su coloro che devono decidere o sui loro familiari. Almeno finché ci saremo liberati dalle mafie». Che ne pensa di questa affermazione?

Ho letto l’articolo di Piercamillo Davigo, il quale peraltro muove un’obiezione tipica e ricorrente della magistratura antimafia maggioritaria. Ma si tratta di una obiezione che se fosse valida dovrebbe valere non solo per i magistrati di sorveglianza ma per tutti i magistrati – sia pubblici ministeri, sia giudici che trattano delitti di mafia. Su ogni magistrato incombe infatti il rischio di essere ucciso a causa di indagini, provvedimenti o decisioni sgradite al potere mafioso. E poi paventare i rischi di condizionamento o di minacce e pressioni irresistibili soprattutto in relazione alla discrezionalità valutativa dei magistrati di sorveglianza fa trasparire una sfiducia o diffidenza preconcetta verso questa categoria di magistrati, come se fossero di serie b ma si tratta di una discriminazione negativa ingiustificata ed ingiusta.

Sempre dal Fatto Quotidiano si è espresso Gian Carlo Caselli: «La realtà esclude in modo assoluto che lo status di uomo d’onore possa mai cessare, salvo che nell’ipotesi (unica!) di collaborazione processuale. In assenza del pentimento le decisioni del magistrato di sorveglianza (oltre a comportare una forte sovraesposizione personale) rischiano di essere una sorta di azzardo surreCome si concilia questo con il diritto alla speranza?

Con tutto il rispetto per Gian Carlo Caselli, anche lui ribadisce una convinzione consolidata dell’antimafia giudiziaria, cioè che non possa esservi credibile rieducazione del mafioso senza collaborazione giudiziaria. Ma non è così per diverse ragioni che sarebbe lungo esplicitare in questa intervista. È la stessa realtà vissuta e giudiziaria a dimostrare che in più di un caso il rifiuto di collaborare con la giustizia è dovuto a motivazioni psicologiche, come ad esempio la paura di ritorsioni, o a ragioni di coscienza, come ad esempio l’indisponibilità a denunciare persone care, ben compatibili con un maturato ravvedimento. Ritenere invece che il mafioso resti interiormente mafioso per sempre, a meno che non si penta e diventi collaboratore, equivale a riproporre vecchi schemi da criminologia positivista ottocentesca se non addirittura lombrosiana. E significa oltretutto contraddire la visione antropologica a sfondo più ottimistico che pessimistico sottostante al principio costituzionale di rieducazione: secondo la Costituzione, infatti, nessun uomo è perduto per sempre e ogni delinquente è potenzialmente capace di cambiamento e miglioramento.

Una reazione dura è stata anche quella del consigliere del Csm Nino Di Matteo: «Poco alla volta, nel silenzio generale, si stanno realizzando alcuni degli obiettivi principali della campagna stragista del 1992-1994 con lo smantellaale». mento del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose ideato e voluto da Giovanni Falcone. Un’eventuale sentenza di accoglimento della Consulta, infatti, aprirebbe la strada di fatto alla possibile abolizione dell’ergastolo, cioè uno dei punti inseriti nel papello di Totò Riina, la lista di richieste allo Stato per fermare le stragi del 1992 e 1994». Non le sembra esagerato ipotizzare un simile scenario?

La posizione di Di Matteo è ben nota. A parte il radicato pregiudizio antitrattivistico, egli assolutizza in maniera incondizionata la lotta alle mafie, finendo implicitamente anche col leggere tutta la Costituzione sub specie mafiae o meglio sub specie antimafiae: il che non sembra costituzionalmente plausibile e ragionevole.

Perché a certi magistrati sfugge la cornice complessiva di un diritto penale costituzionalmente orientato? La loro è pure demagogia o mancanza di cultura garantista?

Tra i nodi problematici della giustizia penale italiana vi è la mancanza di una concezione sufficientemente condivisa dei principi e valori del costituzionalismo penale: a seconda che si rivesta il ruolo di magistrato giudicante, magistrato d’accusa, magistrato antimafia, o magistrato che si occupa di criminalità comune, il bilanciamento tra le esigenze della tutela della sicurezza e della difesa sociale dalla criminalità da un lato, e le garanzie e diritti individuali dall’altro viene compiuto in modo differenziato. Ho più volte rilevato in riviste specialistiche che, se può risultare proficua una articolazione di orientamenti che si mantenga nei limiti di un pluralismo moderato e ragionevole, è invece dannoso e non poco disorientante agli occhi dei cittadini un pluralismo sfociante in contrapposizione tra culture giudiziarie così agli antipodi da risultare inconciliabili. Su questo eccesso di pluralismo dovrebbe intervenire e lavorare la Scuola della Magistratura sul piano della formazione culturale e tecnica dei magistrati.

Le associazioni delle vittime di mafia, opponendosi ad una possibile decisione di incostituzionalità, hanno voluto sottolineare che stanno ancora piangendo le morti definitive dei loro familiari. Come si può replicare?

Ho molta comprensione e rispetto per il dolore e le ferite delle vittime. Ma purtroppo anche per esperienza personale ho sperimentato che la punizione severa del colpevole non è una medicina risolutiva, perché reca un sollievo superficiale e poco duraturo. In realtà nel cuore delle vittime si agitano sentimenti complessi e contraddittori. Per questo tra noi studiosi è affiorata anche l’idea che occorrerebbe creare un nuovo binario per la rieducazione delle vittime, ma da affidare alla competenza di esperti psicologi in grado di aiutare ad elaborare il dolore con strumenti psicologicamente adeguati. In ogni caso, un approccio accentuatamente vittimocentrico comporta il rischio di una privatizzazione della risposta penale, mentre lo Stato che punisce è costituzionalmente tenuto a mediare tra valori ed esigenze concorrenti a favore, piaccia o non piaccia, anche dei colpevoli.