La Via della Seta, ovvero la cinesizzazione dei mercati


di Alessandro Scuderi

Cosa avverrà se il Governo Italiano, ed appare verosimile che accada, firmasse
l’accordo della c.d. “Nuova Via della Seta” con la Cina?

Intanto iniziamo a chiamare tale accordo con il suo vero nome, ovvero Belt and
Road Initiative; sostanzialmente un protocollo d’intesa che prevede una sorta di
testa di ponte economico commerciale che dovrà poi fungere da vero e proprio
canale di flussi finanziari, commerciali e diplomatici con la Cina del III
millennio.Bisogna anche dire che l’accordo euro asiatico è già stato siglato da circa
80 Paesi nel mondo, ma nella veccia Europa solo da Portogallo, Grecia, Ungheria e
Polonia,; salta subito all’occhio che nessuno tra questi è una potenza economica…

Il programma, in verità, è già piuttosto attempato se si pensa che il Presidente Xi
Jimping ne definì la struttura e l’intento, già nel 2013; sebbene la firma dovrebbe
essere posta tra le parti il 22 marzo p.v., in occasione della visita del Ministro degli
Esteri cinese Wang Yi in Italia. E va anche detto che, in verità, il Governo Gentiloni
aveva già dato disposizioni in merito, affinché venisse dato seguito ad un accurato
programma di monitoraggio e di cauto accostamento al progetto cinese. Di fatto, a
parte la necessaria analisi di intelligence, si è costituito una specie di “Comando
Gestione”, composto uffici interessati, come l’Istituto Commercio Estero, dalla
Cassa Depositi e Prestiti (Per la creazione di prodotti finanziari specifici finalizzati al
sostegno di iniziative Italia-Cina e dal polo Sace-Simest per la realizzazione di
prodotti assicurativi specifici per l’export e l’internazionalizzazione verso la Cina), ed
ancora da Eni, Enel, Intesa San Paolo e Politecnico di Milano. L’intento era quello di
studiare quali iniziative e spese si potevano affrontare, ossia l’opportuno calcolo dei
costi-benefici, e solo dopo conferire i veri e propri incarichi e disposizioni ai
diplomatici ed agli esperti di settore. Altro impegno da non sottovalutare sarebbe
stato collegare tra esse le aziende italiane con le aziende, pubbliche e private,
presenti all’interno dei Paesi firmatari, ed in ultimo, ma non meno importante,
facilitare la diffusione informativa dei bandi di gara promossi per i progetti del BRI.

Nel quadro d’insieme del progetto, il Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo

Economico Michele Geraci, sotto l’effetto dirompente del brontolio U.S.A. E
N.A.T.O., si è affrettato a dichiarare che si tratterà di un mero accordo quadro
all’interno del quale si selezioneranno alcuni settori strategici, utili all’Italia, entro i
quali si potranno studiare ed applicare iniziative e finanziamenti comuni. Atteso che
lo stesso Sottosegretario ha badato bene a chiarire che al momento non sarebbero
previsti obblighi e /o esborsi di alcun genere, non si capisce come allo stesso tempo
l’accordo preveda degli investimenti previsti dal progetto Cinese alquanto congrui,
prevedendo tutta una serie di iniziative rispondenti al collaudato schema della
partnership pubblico/privato, tra soggetti internazionali (le stime dell’Ufficio Nazionale
di Statistica di Pechino, prevedono che almeno 1700 miliardi di dollari saranno o
potranno essere investiti negli interventi programmati). E L’Italia che ci mette? Solo
un paio di approdi? Ne dubito…

A mio personalissimo parere, forte della “colonizzazione” economico-militare posta in
essere in tutta l’Africa, il nuovo “Impero Cinese” ha serie intenzioni di investire gli
ingenti capitali guadagnati, ma è anche ovvio che si prevedano anche investimenti
pubblici da parte dei Paesi firmatari della BRI, nonché da parte di soggetti privati dei
medesimi partners.

Al fine di dare spessore e peso specifico all’operazione economica, il Governo
Cinese ha costituiro una sorta di Task Force finanziaria, o se preferite una Joint
Venture alqaunto “allargata”, ove è prevista una forte presenza di
azionisti(naturalmente anche esteri), messa sù dalla potente e temuta ICBC
(Industrial and Commercial Bank of China) che si dice possa disporre di uno
specifico fondo dedicato ai progetti della BRI per un ammontare di oltre 460 miliardi
di dollari. Parallelamente, la AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank),
parteciperà con un fondo di 100 miliardi di dollari ed ancora la SRF (Silk Road Fund)
con una dotazione di 40 miliardi di dollari.

Appare chiaro che si dovrà mettere a disposizione dei cinesi la componente regina
del nostro Paese che, come sempre è accaduto nei millenni, altro non è che la
marineria ed il mare stesso che lo circonda. Non a caso, COSCO (China Ocean
Shopping Company) ha già acquisito il 40% del porto di Vado Ligure e il successivo
incremento della presenza nel porto di Venezia attraverso l’Ocean Alliance. Aseguire,
gli interessi per il porto di Trieste che dovrà necessariamente divenire il più

importante tra i punti di snodo della tratta della nascente MSR (Maritime Silk Road).

Certo è che l’affare dovrebbe promettere bene, bispogna capire e prevedere in che
percentuale tale affare sarà appetibile per l ‘Italia, non solo in termini di percentuale,
ma anche nella prospettiva degli anni a venire e delle alleanze (non solo
commerciali) già siglate.

Ecco perché il portavoce della Casa Bianca ha più volte espresso perplessità circa
le velleità commerciali cinesi, che vengono viste (non del tutto a torto) come una vera
e propria espansione colonizzatrice. Senza contare che il debito pubblico
statunitense, sin dal 1973 è stato man mano acquistato dalla Cina e che solo il fatto
che gli U.S.A. rimangono una Superpotenza militare, tiene a bada le pretese cinesi.

Si pensi, ad esempio alle enormi risorse economiche con le quali la Cina ha investito
in Pakistan, Mongolia e Sry Lanka; di fatto, così facendo, sta costringendo tali Paesi
ad un legame di forte dipendenza economica agli interessi cinesi. Andrebbe dedicata
opportuna importanza ed attenzione al fatto che il baricentro geopolitico del pianeta
potrebbe pericolosamente inclinarsi verso la “cinesizzazione dei mercati”, ovvero
alla costrizione delle masse lavoratrici a dipendere fortemente dai capitali cinesi,
nonostante redditi pro capite bassissimi. Si verrebbe a creare un pericolosissimo
sistema economico finanziario che destabilizerebbe il mondo giuridico, sindacale e
politico dell’Occidente, ma non solo. Invadere con una forza lavoro abituata
all’impiego quasi schiavista dell’operaio, alletterebbe gli industriali (già propensi a
spostare all’estero le prorie produzioni) a scegliere di impiegare moltissimi operai
pagati male, piuttosto che pagarne pochi riconoscendo loro i sacrosanti diritti
sindacali. Il progetto tecnologico ed informatico è già proiettato alla robotizzazione, e
così procedendo ci saranno sempre meno diritti umani da dover rispettare. Altro che
sindacato, qui c’è di mezzo il diritto all’esistenza.

Alessandro Scuderi

Infine, ma certamente non per ultimo, c’è il tema legato alla portata geopolitica di
questa operazione. La presenza delle aziende e delle banche cinesi all’interno dei
Paesi toccati dal progetto, molto spesso con il controllo diretto, o indiretto, di
importanti infrastrutture strategiche, creerebbe una evidente rendita di posizione
economica e geopolitica che è uno degli obiettivi, anche se non del tutto dichiarati,
dell’iniziativa del presidente Xi Jinping.

Al momento, stando a quanto dichiarato dal Ministero dello Sviluppo Economico,
sono ancora in corso le trattative per la stesura definitiva del memorandum d’intesa,
tanto che la sua sottoscrizione non sarebbe ancora data per certa. Se potremmo
probabilmente considerare come un errore opporsi in maniera pregiudiziale ad una
partecipazione italiana al progetto BRI, lo sarebbe altrettanto parteciparvi ad ogni
costo.

La sottoscrizione di un accordo quadro, se nelle caratteristiche enunciate in queste
ore, data la sua genericità, potrebbe non avere controindicazioni per il nostro sistema
Paese, lasciando invece aperte le opportunità che il progetto BRI può offrire. Ma al
contempo è essenziale che sin dall’eventuale sottoscrizione dell’accordo quadro sia
ben chiara la linea sulla assoluta tutela dell’interesse nazionale italiano nel controllo,
in ogni forma esso si manifesti, di asset strategici per il nostro Paese, così come
dovrebbe essere ben chiara e determinata la reciprocità in termini di bilanciamento
dei benefici attesi dalla partecipazione al progetto.

Una menzione a parte necessitano gli aspetti diplomatici della vicenda.
Sarebbe un errore lasciar cadere inascoltate le preoccupazioni manifestate da
Washington per cui sarebbe opportuno sin da subito attivare la linea diplomatica e di
amicizia che da sempre lega il nostro paese agli U.S.A.

Così come la seduta del Consiglio Europeo che si terrà il 21 e 22 marzo prossimi, in
cui ci sarà una sessione dedicata alla preparazione del vertice UE-Cina del 9 aprile,
potrebbe rappresentare un’ottima occasione per un confronto ed un coordinamento.