La mafia non va in lockdown


Una crisi sociale ed economica. E Cosa nostra che sfrutta l’emergenza prodotta dal coronavirus. Emerge anche questo nell’inchiesta della Dda di Palermo e culminata nell’operazione “Mani in pasta”, condotta dalla Guardia di finanza, che ha portato all’arresto di 91 tra boss, gregari e prestanome. Il gip Piergiorgio Morosini scrive di “contesto assai favorevole per il rilancio dei piani dell’associazione criminale sul territorio d’origine e non solo”.

Una analisi del Centro studi Pio La Torre, che ha più volte in queste settimane lanciato l’allarme, parte dalla lucida e allarmante considerazione del giudice, secondo cui “le misure di distanziamento sociale e il lockdown su tutto il territorio nazionale, imposti dai provvedimenti governativi per il contenimento dell’epidemia, hanno portato alla totale interruzione di moltissime attività produttive, destinate, tra qualche tempo, a scontare una modalità di ripresa del lavoro comunque stentata e faticosa, se non altro per le molteplici precauzioni sanitarie da adottare nei luoghi di produzione”.

Il blocco favorisce il “soccorso mafioso”

Da una parte, “l’attuale condizione di estremo bisogno persino di cibo di tante persone senza una occupazione stabile, o con un lavoro nell’economia sommersa, può favorire forme di soccorso mafioso prodromiche al reclutamento di nuovi adepti”.

Dall’altra, il blocco delle attività di tanti esercizi commerciali o di piccole e medie imprese , “ha cagionato una crisi di liquidità difficilmente reversibile per numerose realtà produttive, in relazione alle quali un interessato sostegno potrebbe manifestarsi nelle azioni tipiche dell’organizzazione criminale, vale a dire l’usura, il riciclaggio, l’intestazione fittizia di beni, suscettibili di evolversi in forme di estorsione o, comunque, di intera sottrazione di aziende ai danni del titolare originario”.

Con la crisi di liquidità di cui soffrono imprenditori e commercianti, i componenti dell’organizzazione mafiosa, secondo il gip di Palermo, “potrebbero intervenire dando fondo ai loro capitali illecitamente accumulati per praticare l’usura e per poi rilevare beni e aziende con manovre estorsive, in tal modo ulteriormente alterando la libera concorrenza tra operatori economici sul territorio e indebolendo i meccanismi di protezione dei lavoratori-dipendenti”.

La rete dei fratelli Fontana

I fratelli Fontana, ‘re’ dell’Acquasanta, con radici e grandi affari a Milano avevano garantito flussi enormi di denaro e capacità enormi di riciclaggio anche grazie alla complicità di un commercialista milanese. In una intercettazione uno degli indagati consiglia al boss Giovanni Fontana di acquistare in Inghilterra una società con soli 150 euro, garantendosi così la possibilità di accendere a un numero enorme di conti correnti. Nella conversazione si parla di bonifici di decine di migliaia di euro provenienti da Londra.

Il pentito Vito Galatolo ha raccontato ai pm: “Mio cugino Angelo Fontana figlio di Stefano, suo fratello Gaetano e Giovanni sono la stessa cosa, nel senso hanno tutto in comune, lui a Milano gestisce tutto a livello… economicamente a livello sugli orologi, brillanti compra vende, manda suo fratello a Palermo, fanno affari con altri gioiellieri”. Dichiarazioni confermate dal boss Giovanni Fontana in una intercettazione: “La giornata è questa, guadagni duemila euro al giorno, mille io, mille Gaetano, sto guadagnando ventimila euro al mese, solo la mia parte. Angelo di più! Angelo viaggia… centomila euro al mese fa!”.

C’è anche la frode sportiva e il riciclaggio di denaro sporco realizzato attraverso l’acquisto di puledri di razza nell’inchiesta della Finanza. Cosa nostra investe nel settore dell’ippica e avrebbe truccato gare corse in ippodromi di Torino, Villanova d’Albenga, Siracusa, Milano e Modena. In particolare dall’inchiesta, che ha portato anche al sequestro di 12 cavalli, e’ emerso che l’uomo della cosca nel mondo dell’ippica era Mimmo Zanca, già arrestato in passato, e incaricato di gestire la combine all’interno degli ippodromi, corrompendo e minacciando chi si opponeva.

Boss, gregari, prestanome e insospettabili come l’ex broker Daniele Santoianni, finito ai domiciliari, da concorrente del Grande fratello a prestanome – secondo chi indaga – di una società di commercializzazione del caffè, crocevia importante, per i pm, nella rotta sud-nord per ripulire il denaro dei capimafia. Affari ingenti sulla rotta Palermo-Milano. La dimostrazione questa, della capacità delle cosche di infiltrarsi nell’economia legale e del rischio che in una fase di crisi, alimentata anche dall’emergenza dettata dal Covid-19, ciò possa essere ancora più invadente”.

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Fonte: cronaca agi