LA FILOSOFIA AI GIORNI NOSTRI


A partire dal XIII secolo d.C. si instaura un processo di progressiva rivendicazione di affermazione di sé da parte della ragione umana, e questo ridestarsi della ragione dopo il lungo letargo medievale sfocia nell’Umanesimo, da alcuni concepito come l’alba della modernità. Cronologicamente, per modernità si è propensi ad intendere il periodo che va dalla seconda metà del XV secolo fino ai giorni nostri; in termini generalissimi, stando alla definizione che ne dà Hegel, tale modernità è la “conversione dal cielo alla terra“: non più l’al di là, bensì l’al di qua, non la beatitudine eterna, ma la felicità mondana, non la vita futura ma la presente, costituiscono il centro dell’interesse dell’uomo umanistico, per il quale tanto il cielo religioso quanto quello metafisico delle immutabili idee platoniche e delle forme aristoteliche si scostano per cedere il posto alla finita vita terrena. In realtà, questo processo prende le mosse in pieno XIII secolo e dura per parecchio tempo, raggiungendo l’apice nel XVIII secolo con l’illuminismo, e passando per due grandi momenti emancipativi: emancipazione dal principio di autorità e la rinascita della curiosità. Sgombrare il campo dal principio di autorità significa far rinascere l’autonomia della ragione, incensurata e non sottoposta al comando di alcuna entità; la modernità risiede anzi soprattutto nel libero esercizio della ragione, il che vuol dire che essa ridiventa socraticamente curiosa, e – per dirla con Kant – cessa di essere impigrita dal dominio del Libro. I “moderni” hanno legittimato la rinata curiosità in tre fondamentali momenti: il primo di essi è segnato dall’Ulisse nell’Inferno di Dante, che col suo ardore “a divenir del mondo esperto” si spinge fin oltre le Colonne d’Ercole, imbattendosi infine nella morte; il secondo trova invece espressione in un passo di Giordano Bruno (De gli eroici furori, dialogo 5), in cui il Nolano scrive: “O curiosi ingegni, / […] Per largo e per profondo / Peregrinate il mondo, / Cercate tutti i numerosi regni“, con una chiara allusione alle grandi scoperte geografiche di quei tempi. Infine, il terzo e ultimo momento è scandito da una lettera di Cartesio inviata il 9 febbraio 1639 a padre Mercenne: “io studio per la mia utilità e per la mia curiosità“; particolarmente interessante è il riferimento cartesiano alla categoria dell’utile, che da quel momento in poi assumerà un ruolo fondamentale in sede filosofica. Da queste tre tappe appare evidente come siamo incommensurabilmente distanti dalla dannazione monastica della curiosità (quale era stata sancita da Pier Damiani e da Bernardo), la quale è conditio sine qua non per sbarazzarsi del principio di autorità: è sì una condizione necessaria, ma ciononostante non sufficiente, poiché – affinchè il principio di autorità venga scalzato – è altresì necessario che la ragione diventi anche critica, quale era presso gli antichi. Essa torna appunto tale nell’Umanesimo, un termine, questo, che troviamo solo a fine Settecento e inizio Ottocento: l’Umanista è chi ha accesso a una cultura superiore, è chi si umanizza studiando i testi tramandati dagli antichi, presi a modello di umanità in quanto paradigmi del libero esercizio della ragione, non più ancella della teologia, ma libera e disincantata padrona del mondo. Questo era già, sostanzialmente, il significato della humanitas presso gli antichi, e tale viene compendiato da Aulo Gellio nelle sue Notti attiche (libro XIII, cap. 17): “chi parlava una volta bene latino, designava col termine humanitas quello che i Greci denominavano paideia […]. Sono dotati di humanitas quanti mostrano per le arti una passione sincera e perciò meritano di esser detti i più umani tra gli uomini“. Nell’età umanistica, in sintonia con la nozione antica di humanitas, si diffondono con incredibile rapidità espressioni del tipo humanae litteraehumanitas o studia humanitatis, che ben rispecchiano il clima di profonda attenzione per la produzione degli antichi (che in età medioevale era stata letta in maniera strumentale alla fede) che si respirava in quel periodo. Scriverà Giambattista Vico: “gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura“; con questa celebre riflessione, egli mette in luce come gli uomini in un primo momento siano ancora dei bruti, mera sensazione inconsapevole; poi accedono ad una consapevolezza perturbata dall’emozione e, infine, pervengono alla pura ragione discorrente e ragionante (il che corrisponde appunto all’età antica di Aristotele e Platone e al ritorno di quell’epoca nel mondo umanistico), impadronendosi della “bilancia dello spirito critico“, che – aristotelicamente – non può essere posseduta né dai primitivi né dai fanciulli e che nasce con l’Umanesimo. Non è casuale che in età umanistica torni in auge il dialogo, che soppianta il monologare del principio di autorità dell’età medievale: si attua in tal maniera una straordinaria moltiplicazione dei punti di vista e delle prospettive, perché le più disparate concezioni vengono riscoperte e riproposte. Non domina più quel tutt’uno onnisciente che è la dottrina cristiana, ma pullulano tantissime filosofie nella loro individualità, anche scuole di pensiero espunte o tralasciate dai Medievali (l’epicureismo, lo scetticismo e lo stoicismo). Sicchè la tradizione, a partire dall’età umanistica, è messa in krisiV, cioè sottoposta a giudizio e ricomposta nelle sue differenti componenti – spesso inconciliabili – e questa è la condizione imprescindibile affinchè possa farsi strada la tolleranza, ovvero la pacifica convivenza di punti di vista diversi e, spesso, contrari. Il primo importante manifestarsi della rinascente coscienza critica è la filologia umanista, che non può essere ridotta ad un arido grammaticalismo, ma va piuttosto intesa come tensione a reinterpretare nella sua complessità la cultura antica quale ci è pervenuta. Insomma, non si tratta di una mera restaurazione linguistica (non è, cioè, un banale ritorno al latino di Cicerone, come lo intenderà certo umanismo, quale quello di Ermolao Barbaro), ma è piuttosto l’esercizio critico della ragione; tale è, per l’appunto, la critica filologica condotta da Lorenzo Valla contro la “Donazione di Costantino”, da lui smascherata – col solo utilizzo di mezzi filologici – come un falso posteriore, redatto da un monaco ignorante. Siamo in altri termini di fronte ad una riappropriazione critica della tradizione antica, considerata in sé come un valore smarrito nella buia età medievale. Risulta a questo punto opportuno indagare – seppur sinteticamente – su che cosa sia accaduto alla ragione nei cosiddetti “secoli bui” dell’età medievale: dal prevalere egemonico della consuetudine sulla ragione, nasce una cultura nella quale si assiste al sopravvento di un unico punto di vista (quello cristiano), spesso imposto con la violenza, un punto di vista che non è il frutto del libero investigare del raziocinio, ma, piuttosto, è un qualcosa che viene tramandato consuetudinariamente di padre in figlio, ed è in tale condizione che si palesano gli effetti deleteri giocati dal cristianesimo sulla ragione umana. Quanto più la consuetudine prende il sopravvento, tanto più viene stimolata la pigrizia del filosofare, imponendo la comoda facilità del risaputo, con l’inevitabile conseguenza che la capacità di giudizio propria della ragione si ottunde ed essa subisce un precoce ed artificioso invecchiamento che ne atrofizza le funzioni riducendola a mero portavoce e a pura cassa di risonanza della prospettiva cristiana. Un simile esempio di sclerotizzazione di un’intera civiltà – quale si è avuto nel Medioevo – ci è fornito anche dalla Cina, così come essa si è sviluppata fino al XIX secolo d.C., in un incredibile immobilismo che Hegel ha rintracciato nella produzione artistica, tristemente rimasta invariata nelle sue forme, a tal punto da essere nel XVIII secolo ancora ridotta a riprodurre prototipi del tutto uguali a quelli dei secoli precedenti, in una repititività assoluta, peraltro presente anche nelle istituzioni politiche di quell’immenso Paese. Ora, qualcosa di affine al caso cinese avviene in Occidente nell’età medievale: prova ne è che se ci chiediamo in che cosa si differenzi l’Ottocento dal Novecento o dal Mille, ci troviamo alquanto in imbarazzo nel fornire risposte soddisfacenti, proprio come non riusciamo a rispondere se interrogati su quali siano le distinzioni tra la Cina del XIX secolo e quella del XII. Lo shock culturale prodotto dal rientro in Europa di Aristotele ha, in tal prospettiva, l’effetto di una vera e propria scarica di adrenalina; e, del resto, l’intellettualismo greco, così profondamente venato di ottimismo, da cos’altro trae origine se non dallo stupore continuo che sorprende la ragione che scopre se stessa? I dialoghi platonici non sono forse un incessante stupore della ragione che disvela le sue virtù? Ora, la modernità non esita a condannare il Medioevo e il suo rifiuto della ragione come faro della vita umana: e, bandito il principio di autorità e ripristinata la curiosità di marca socratica, i moderni procedono con una terza importantissima via emancipativa con la quale convertirsi dal cielo alla terra, e quella via è una diretta conseguenza del ripudio del principio d’autorità. Scrive Hegel in merito all’età medievale, epoca della “coscienza infelice” che vede in Dio tutto e nell’uomo nulla – e al suo trapasso in modernità: “gli uomini avevano un cielo ornato con ricca abbondanza di pensieri e di immagini […]. Anziché sostare in questo pensiero, che invece sorvolava, lo sguardo si innalzava al cielo, ad un essere divino, ad un presente – se così si può dire – al di là. Si rese così necessario, in età moderna, costringere l’occhio dello Spirito sulle cose di questa terra e trattenerlo“. Il cielo della religione cristiana, delle idee platoniche e delle essenze aristoteliche viene dai moderni abbandonato: anche le essenze aristoteliche – è bene notarlo – fanno parte del cielo e non della terra, poiché esse sono contemplabili da parte della ragione solo attraverso un’astrazione che le svincoli dall’empirico e, di conseguenza, dalla vita. In età moderna, è la ragione, ridestatasi dal lungo letargo medievale, che – critica e polemica ad un tempo – costringe l’occhio alla terra, svuotando i cieli allestiti dalla religione e dalla metafisica, le quali appaiono alla ragione stessa come vane fantasticherie o fumose congetture, ossia come mondi fantasmagorici o, quanto meno, incerti, privi cioè di salde prove e perciò immeritevoli di convogliare su di sé tutta l’attenzione e la sollecitudine dell’uomo. La pretesa di fare di questi cieli il fine ultimo dell’uomo appare agli occhi vigili della ragione critica non solo infondata, ma anche nociva, giacchè distoglie l’uomo stesso dall’occuparsi di quegli obiettivi in larga misura certi e tangibili: le cose ch’egli potrebbe compiere quaggiù, finirà per trascurarle completamente se si ostina a perder tempo in questi fantomatici e sedicenti cieli; la ragione nella sua veste critica, dunque, distoglie da essi, mentre quella nella sua veste critica e operatrice trattiene a terra lo sguardo, mettendo mano ad una ben calcolata (cioè scientifica) trasformazione della terra, volta a trarre la massima utilità e il massimo profitto possibili per l’uomo. Ecco allora che l’emancipazione dal cielo si articola in una prima riappropriazione della terra grazie alla ragione calcolatrice che sfocia in una prospettiva eudemonistica e utilitaristica tipica della modernità, sfocia in un filantropismo che culminerà nell’illuminismo. E allora ciò che la risvegliata ragione sortisce è un allontanamento dal miraggio d’una lontana e dubbia beatitudine celeste (distacco anche dalle forme aristoteliche e dalle idee platoniche), avviandosi all’indubbia e prossima felicità terrena, frutto di un corretto impiego della ragione, il quale è sì un impiego critico e polemico, ma non più metafisico (come quello antico), la ragione non si interessa cioè più di speculare, ma concentra la sua attenzione sul calcolare e sull’operare. In piena età illuministica, Voltaire e Diderot affermano concordi che “la felicità è l’unico dovere dell’uomo“, ma non si tratta della felicità platonicamente ed aristotelicamente intesa, culminante nella sapienza speculativa; al contrario, è la felicità di chi riesce a rendere questo mondo più comodo e agevole, in un significato piuttosto vicino a quello che odiernamente attribuiamo al “benessere”. Ne segue che l’emancipazione dal cielo comporta la riappropriazione della terra, ma anche una seconda riacquisizione: affinchè l’uomo si riappropri della terra trasformandola a proprio vantaggio, è necessario che egli sia presente hic et nunc a se stesso, edotto e consapevole delle proprie caratteristiche e qualità, fiducioso nei propri mezzi e padrone di far di essi l’uso più consono. Occorre cioè la riappropriazione di sé da parte dell’uomo, il che significa che i moderni elaborano una nuova e diversa immagine dell’uomo stesso, rispetto a quella affiorata in età medievale. Una lunga tradizione storiografica che parte da La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) di Jacob Burckhardt e arriva fino a Giovanni Gentile scorge i prodromi di questa rinnovata immagine dell’uomo nei trattati umanistici sulla dignità e sull’eccellenza dell’uomo, nei quali si tesse un elogio del genere umano e se ne segnalano la superiorità e l’egemonia su tutti gli altri esseri. Ma sono veramente questi i testi in cui emerge l’immagine dell’uomo nuovo? Sono per davvero gli incunaboli di un genere umano dal volto rinnovato? O non sono piuttosto altri? Scendendo nello specifico, notiamo come i trattati umanistici a cui fan riferimento Burckhardt e Gentile siano suddivisibili in due diversi filoni – uno platonico e l’altro aristotelico – , nessuno dei quali tuttavia delinea veramente la nuova immagine dell’uomo moderno. Il più noto esponente del filone platonico è indubbiamente Pico della Mirandola e la sua Oratio de hominis dignitate, nella quale sostiene che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio e, perciò, come un microcosmo, in maniera tale da riprodurre entro di sé l’infinita pienezza di Dio (la pienezza delle idee platoniche si configura per Pico come pienezza dell’essere divino, infinito perché racchiude in sé l’infinita totalità delle idee). Il mondo stesso è, del resto, un’immagine (deficiente) di Dio e l’uomo rappresenta un mondo in miniatura, in quanto egli è virtualmente ogni forma possibile di vita: vegetale (poiché possiede l’anima vegetativa), animale (perché dotato di anima sensitiva e, quindi, di istinti e passioni), umana (in quanto equipaggiato di ragione e pensiero), angelica (nel caso raggiunga la pura intuizione intellettuale). Ben si capisce come l’uomo compendi entro di sé l’intero cosmo, perfino la vita divina. E tale microcosmicità fonda la libertà dell’uomo, chiamato a scegliere quali seguire tra queste vite virtualmente presenti in lui: con un libero slancio di volontà, può decidere se restare pianta, animale, uomo, o se innalzarsi alla natura angelica e magari anche a quella divina. Tale libertà è la prima ragione della particolare eccellenza e dignità da Pico riconosciuta al nostro genere, strettamente imparentato con Dio stesso: è solo l’uomo, infatti, a poter scegliere liberamente se rimanere pianta o innalzarsi a Dio, mentre tutti gli altri enti (le piante, gli animali, e gli angeli stessi) sono destinati a rimanere quali sono, fissati nella loro determinatezza. Certo, non si tratta di una libertà assoluta, ma relativa, in quanto non costituisce i valori tra i quali scegliere, ma li trova già costituiti: ma è comunque tale da consentirci una nostra dignità eccellente. E Pico – qui in sintonia con Ficino e con il suo De immortalitate animorum – sviluppa un’attenta riflessione sul “desiderio naturale”, che è un desiderio congenito alla natura di un certo ente; ora, esso è presente in tutti gli enti e in tutti ha per oggetto un bene che è – aristotelicamente – il proprio bene, ossia la perfezione dell’essere di quel dato ente, sicchè ogni cosa appare come in cammino verso la propria piena realizzazione. Anche nell’uomo trova spazio tale desiderio naturale, ma con la prerogativa di non potersi appagare di un simile perfezione: al contrario, mira alla perfezione dell’essere in quanto tale, e perciò a quella dell’essere divino. Sotto le spoglie del desiderio naturale divino di cui parla Pico non è difficile riconoscere l’eros socratico/platonico, quell’anelito all’infinito che tornerà ancora nella cultura romantica: tale sforzo verso l’infinito alimenta la nostra anima per tutta la sua esistenza, poiché nessuno dei beni che conquista è in grado di estinguere la sua sete; da ciò deriva che l’esistenza dell’anima, tendente all’infinito e per questo motivo mai appagata pienamente, dovrà essere infinita, cosicchè essa sarà immortale. E’ una contraddizione solo apparente quella in cui ci imbattiamo quando Pico parla dell’uomo come ente finito e del suo desiderio naturale come mirante all’infinito: l’uomo, infatti, è atto al fine soprannaturale ed è in ciò soccorso dalla Grazia, secondo quel celebre motto medievale “Gratia perfecit naturam“; è pertanto concesso all’uomo di raggiungere l’infinito, grazie all’intervento della Grazia: ciò avviene nell’estasi mistica, il che vuol dire che in questa suprema possibilità di unirsi a Dio Pico ravvisa la superiorità umana su tutto il creato, giacchè solo l’uomo (e non l’angelo) può indiarsi. Gli è permesso di innalzarsi fino alle sfere celesti o di abbassarsi fino ai bruti: che l’uomo si trovi in qualche misura in una posizione privilegiata rispetto agli angeli è anche provato dalla tradizione biblica, che vuole che, caduti sia gli uomini sia gli angeli (Lucifero), Dio si prenda cura esclusivamente dei primi, concedendo loro la possibilità di redimersi. Questo discorso di Pico rileva la centralità dell’uomo nell’economia del cosmo, di cui l’uomo appunto è il massimo prodotto: “o somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile felicità dell’uomo! Al quale è dato avere ciò che desidera, essere ciò che vuole. […] I quali [uomini] cresceranno in colui che li avrà coltivati e in lui daranno i loro frutti. Se saranno vegetali, diventerà pianta; se sensibili abbrutirà. Se razionali, riuscirà animale celeste. Se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. E se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà” (Oratio de hominis dignitate). L’uomo così inteso è faber fortunae suae: eppure la prospettiva di Pico (condivisa in gran parte da Ficino e da Landino) può davvero dirsi moderna in senso pieno? Getta davvero le basi del nuovo uomo? Sia Pico sia Ficino mantengono il cielo come mèta ultima (platonica e cristiana), restando lontanissimi dall’affermazione hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo alla terra. Se ci spostiamo sul filone aristotelico, ci imbattiamo in tre grandi pensatori: Manetti (autore del De dignitate et excellentia hominis), Alberti (di indirizzo stoico) e Bracciolini. Essi si occupano della nobiltà dell’uomo, rinvenuta nell’esercizio delle virtù etiche e politiche.

FONTE@ filosofico.net/