AGI – Il 2 dicembre 1823 l’allora presidente degli Stati Uniti James Monroe espose al Congresso la dottrina diplomatica che sarebbe passata alla storia con il suo nome e avrebbe influenzato per sempre le azioni di Washington in politica estera.
In uno storico discorso sullo Stato dell’Unione, Monroe chiarì che nessuna intromissione delle nazioni europee negli affari del continente americano sarebbe stata più tollerata. Alle potenze del vecchio continente non sarebbe stato più concesso fondare colonie dall’altro lato dell’Atlantico. Ciò si tradusse prima nel sostegno alle cause dell’indipendenza dei Paesi latinoamericani e, successivamente, con il cosiddetto “corollario Roosevelt” del 1904, all’asserzione della supremazia degli Stati Uniti nel continente americano.
La dottrina Monroe pose così le basi della primazia degli Stati Uniti sull’intero Nuovo Mondo. Le prime applicazioni concrete risalgono agli anni ’40 del XIX secolo, quando il presidente James Knox Polk si oppose alle azioni franco-inglesi per impedire l’annessione agli Usa del Texas e ai tentativi britannici di costituire un protettorato nello Yucatan. Un filo rosso che collega il muro contro il tentativo spagnolo di riprendersi la Repubblica Dominicana, nella seconda metà dell’800, alle ‘Banana Wars‘, concluse nel 1934 dalla “politica del buon vicinato” di Franklin Delano Roosevelt, e agli interventi a Grenada e Panama negli ultimi anni della Guerra Fredda. Conclusa quest’ultima, la Russia pose le basi per una sua versione della dottrina Monroe, la cosiddetta “dottrina Kozyrev”, dal cognome di Andrey Kozyrev, primo ministro degli Esteri di Boris Eltsin.
Come gli Usa chiarirono che avrebbero considerato eventuali ingerenze dei governi europei negli affari interni delle nazioni americane come minacce dirette alla loro sicurezza, Mosca avvertì allora che se l’Occidente avesse continuato a espandere la propria influenza negli ex territori dell’Urss, ci sarebbero state in futuro conseguenze negative.
Il monito di Kozyrev, un liberale filo-occidentale, nasceva dal timore che una crescente pressione della Nato ai confini dell’ex Unione Sovietica avrebbe non solo distrutto la cooperazione con l’Occidente ma avrebbe soffocato sul nascere lo sviluppo della democrazia russa, innescando una sindrome da accerchiamento che avrebbe rinfocolato pulsioni nazionaliste e autoritarie. Le profetiche parole di Kozyrev furono però ignorate.
“Fin dall’inizio dell’espansione della Nato a metà degli anni ’90, funzionari e commentatori russi, compresi i riformisti liberali, avvertirono che un’offerta di adesione alla Georgia e all’Ucraina avrebbe portato al confronto con l’Occidente e un grave pericolo di guerra“, spiegò lo scorso gennaio sul ‘Time’ Anatol Lieven del Quincy Institute for Responsible Statecraft, “non c’è nulla di misterioso, estremo o putiniano in questo atteggiamento russo”.
“In primo luogo, il linguaggio occidentale sull’espansione della Nato che stabilisce una ‘Europa intera e libera’ implica l’esclusione della Russia dall’Europa e da un ruolo in Europa, una questione profondamente offensiva per i russi, e in particolare per i liberali russi, soprattutto perché tale retorica era intrisa del presupposto (razzista, tra l’altro) che la parola ‘europeo’ equivalesse a ‘civilizzato’. E che la Russia non facesse parte di quell’idea’ “, aggiunse l’analista britannico.
Nel caso specifico dell’Ucraina, un ingresso del Paese nell’orbita Nato avrebbe comportato in primis l’espulsione di Mosca da Sebastopoli, in Crimea, dove ha sede la Flotta del Mar Nero. “In assenza di un compromesso, è probabile che ci sarà un nuovo attacco russo all’Ucraina”, scrisse Lieven, “in caso di guerra, a prescindere da quanto lontano marci l’esercito russo, seguirà una nuova proposta di accordo in cambio di un ritiro russo. La differenza è che l’Occidente e l’Ucraina saranno in una posizione molto più debole per negoziare un accordo favorevole e, nel frattempo, migliaia di persone saranno morte”. Parole, anche queste, rivelatesi tragicamente premonitrici.
Source: agi