Il senso di Franco Mussida per l’arte


AGI – Un libro appena pubblicato e un album del quale non si sa ancora la data di uscita. A 74 anni Franco Mussida è in grande forma. Fondatore e storico chitarrista della Pfm, è anche compositore, scultore, pittore e dall’anno di nascita, il 1984, presidente del CPM Music Institute, di fatto oggi la quinta università di Milano, dove si formano artisti e lavoratori della musica.

Una delle due novità è che Mussida è tornato in studio di registrazione dopo circa otto anni: “Ho ripreso la chitarra in mano, sto realizzando un album, in musica e parole. Ci saranno canzoni, brani interamente musicali, riflessioni che io chiamo canzoni in prosa. Un pezzo si chiama “Democrazia solidale”, che affronta la tematica della necessità di un nuovo paradigma di socialità, l’altro si chiama “Ninì”, una conversazione tra due amici d’infanzia che hanno avuto vite diverse. Uno fa l’imprenditore di successo, retto da una cinismo basato sui numeri, l’altro è un artista.”

Il libro, invece, è nelle librerie. S’intitola “L’oro del suono” (Nomos Edizioni), che segue a “Il Pianeta della Musica” (Salani 2019). Si tratta di uno speciale catalogo monografico che raccoglie e illustra la ricerca e la produzione nell’arte contemporanea del poliedrico artista. La monografia si compone anche di testi critici scritti da Martina Corgnati, Giacinto Di Pietrantonio, Demetrio Paparoni e Alberto Zanchetta. Per Mussida l’arte, attraverso le sue apposite simbologie visive, è un mezzo particolarmente indicato a raccontare i princìpi di quello che lui stesso definisce “codice musicale”, elemento emotivo primordiale da cui originano forme e stili musicali.

Lei, autodidatta, spinge i giovani a studiare per cercare di trasformare una passione in professione. Una legge del contrappasso?
“All’epoca, a Milano non c’era un centro dove si insegnasse musica. C’era qualche negozio di strumenti che metteva a disposizione un insegnante  in sottoscala o androni, ma senza alcun tipo di organizzazione. Insieme a tanti amici chiamati in causa, come Giannino D’Antonio, abbiamo immaginato di creare il centro che poi è entrato in attività nel 1985. Nel tempo, ci sono state persone come Giuliano Lecis, vice direttore didattico, che hanno avuto un ruolo fondamentale. Diversi incontri, senza i quali avrei fatto fatica a far venire fuori una scuola così.”

Come si gestisce una struttura del genere, frequentata da circa 500 giovani, in un momento storico del genere?
“Un elemento essenziale per chi decide di fare un mestiere che ruota attorno alla musica è adattarsi a qualsiasi tipo di situazione. Al Cpm abbiamo gestito la pandemia prendendo l’iniziativa. Ricordo che il 28 febbraio dello scorso anno avevamo la presentazione, in locali del Comune di Milano, di alcune iniziative sul disagio sociale da portare avanti in alcune carceri, fra cui il Beccaria. Con il lockdown sembrava tutto perduto, ma noi siamo riusciti a ribaltare la situazione. Quasi tutti gli studenti del terzo anno e gli insegnanti hanno creato una rete che, attraverso un protocollo, oltre alle normali lezioni hanno fatto da supporto ai ragazzi del primo anno. Un aspetto determinante, che ha salvato l’anno accademico.”

Ne ha appena accennato. Finora, quali sono stati i risultati di questa attività denominata CO2, audioteche di sola Musica strumentale per l’ascolto emotivo consapevole divise per stati d’animo installate in 12 carceri e il recentissimo Swimmer – Nuotare nel mondo delle emozioni destinato al carcere minorile Beccaria di Milano?
“Perché la musica è una vitamina per la coscienza. Quando ho iniziato nel 1988 con i laboratori a San Vittore, portavo gruppi e corali. Poi mi sono accorto che la cosa più importante fosse l’educazione all’ascolto, a sentire la musica. Nel 2013 è nato CO2, progetto in collaborazione con il ministero della Giustizia e la Siae, di ascolto consapevole della musica nelle carceri attraverso audioteche basate su stati d’animo.”

Lei si cimenta anche nella scultura e nella pittura: da dove nascono queste altre passioni?
“Ho imparato tardi a dipingere, dapprima non riuscivo. Nel 2011 mi sono accorto che il mondo della musica si era involuto rispetto alle altre arti, anche per via dell’avvento delle macchine. Ho visto ragazzini guadagnare soldi a palate su garage band e bravissimi jazzisti fare fatica a sbarcare il lunario. Dov’era l’errore? Provo a raccontare cosa c’è dietro alla sacralità del suono, legato alla natura. Un aspetto al quale stiamo rinunciando, perché non riusciamo a coglierlo. Una pianta è musica, perché ha dentro un elemento di vita. La musica è amore vibrante organizzato.”

Come sta la musica italiana?
“Non c’è una musica italiana. Il fenomeno commerciale e, al tempo stesso, di compagnia, di intrattenimento e di leggerezza sta svolgendo un ruolo che è un po’ fatto nello stesso modo dappertutto. Perché ciò che viene offerto nella sostanza è una materia – un timbro, un ritmo – creata per fare reagire. Le macchine hanno un ruolo centrale. Ormai sempre più spesso nelle registrazioni in studio viene utilizzato il click, una griglia metrica che consiste nel dividere il tempo nei modi più precisi possibili all’interno in cui il musicista deve sottostare. Eppure la musica di oggi è in un momento straordinariamente importante, io lo trovo bellissimo. È  come se, a un certo punto, dovessimo ancora scoprire tutto. La mia generazione ha vissuto tanto, ma non è riuscita a raccontarlo, perché ha sempre assimilato. Mi piacerebbe, per il tempo che ho a disposizione, di poterlo raccontare.”

I nostri padri non capivano la musica progressiva, oggi – a parte i ragazzi – non capiamo la trap. È una similitudine che regge?
“Parliamo di fenomeni sociali. La trap o il rap sono un racconto attraverso le parole. Il prog in fondo cos’era? La voglia di utilizzare soprattutto il linguaggio non verbale. La sua importanza è di avere espresso musica popolare fusa con rock, jazz, musica classica. Poi i cantautori ci hanno messo il carico da novanta per bilanciare suoni e parole. La trap è il contrario, per cui la musica è soltanto qualche ritmo. All’ascoltatore di trap e rap interessa il fatto, non l’armonia. Certo, chi è abituato al suono fa fatica a sentirli.”

La sua vita di musica è legata alla Pfm. Qual è il suo ricordo più bello di questo viaggio intrapreso nel 1971 e finito nel 2015?
“Quando ci siamo incontrati. Cercavano un chitarrista per un nuovo gruppo. Mi contattò Gian Pieretti. All’inizio ci chiamavamo I Quelli. Feci l’audizione nella trattoria del padre di Pieretti. Mi fecero una valanga di domande, non mi avevano detto di portare lo strumento. A un certo punto esclamano: “Facci sentire qualcosa!” C’era una chitarra appesa al muro, aveva quattro corde. Io l’acchiappo, cerco di accordarla e mi metto a suonarla. Subito dopo Gian Pieretti mi ferma: “Ok, sei preso!” Poi, fondamentalmente, dall’incontro con Franz (Di Cioccio, ndr) è nata la Premiata Forneria Marconi.”

Come nacque “Impressioni di settembre”?
“Bisognava fare la facciata b de “La carrozza di Hans” e siccome all’inizio in Pfm ero quello che scriveva, la mia idea piacque anche agli altri. La mia era il piccolo cortile dove abitavo e nel quale facevo fatica a vedere il cielo. Il mio bisogno era di uscire dal cancello di quella casa popolare e la musica era il modo con cui scardinare quel territorio fisico. L’armonia è arrivata all’improvviso, come un’esplosione.”

È stato difficile riarrangiare le canzoni di Fabrizio De Andrè per lo storico tour del 1979?
“Io mi occupai della produzione artistica e della scelta, condivisa con Fabrizio, dei pezzi da proporre al pubblico. Dopo di che ne ho riarrangiato diversi. Musicalmente, è stato molto meno complicato di quanto si possa immaginare. Facemmo due mesi di prove, con tutti gli spartiti pronti. Ebbi problemi soltanto con “La canzone di Marinella”, perché aveva quest’aria da funerale che si portava dietro nella versione originale. Alla fine ce l’ho fatta, dopo due, tre giorni intensi di lavoro.”

A proposito di canzoni dal non facile ascolto: di “Amico fragile” la gente aspettava soprattutto i suoi assoli…
“Quello è un pezzo disperato. Al di là della tecnica, uno strumentista deve vivere quella disperazione nella sincerità di doverlo fare. Ed è faticoso. La cosa bella è che sul palco Fabrizio mi guardava e io incrociavo i suoi occhi. Eravamo entrambi l’amico fragile dell’altro.”

Source: agi