Il possibile caos nell’attuazione del Pnrr spinge Draghi verso la permanenza a Palazzo Chigi


Al Pnrr e al Recovery Plan mancano circa 100.000 addetti, fra cui 3mila figure di staff specializzato, 23mila operai specializzati e più di 70mila operai generici: rispettare i tempi appare impossibile. Oltretutto, al netto di ritardi già ampiamente cristallizzati nelle amministrazioni del Mezzogiorno, incapaci di far partire bandi e appalti e quindi già a forte rischio di perdita degli stanziamenti europei

di Antonino Gulisano

C’è un potenziale caos in stile greco all’orizzonte da gestire, di cui già oggi si intravedono chiarissimi i prodromi.
Concentriamoci sulle materie su cui sono sul tavolo i dossier aperti. Iniziamo con il nulla di fatto del Consiglio d’Europa. Nulla di fatto sul tema dell’immigrazione e una serie di minacce e veti incrociati sul dossier Polonia. A dipanare i contenziosi in atto è stata chiamata Angela Merkel, giunta alla sua ultima uscita ufficiale dopo 16 anni e 117 vertici simili. La Merkel al vertice di Bruxelles commenta: “lascio in un momento preoccupante per l’Europa”.
E Mario Draghi lo sa. Anzi, è stato chiamato apposta a gestire il razionamento. Draghi ha riportato sulla terra il tema delle riserve di gas condivise su cui tanto aveva premuto, conscio della non transitorietà dell’inflazione energetica, è rimasto sul tavolo, ennesima vittima di troppe teste e troppi interessi da far convergere. Lo status con cui si affacciano alla stagione invernale e gli stoccaggi strategici di gas europeo rispetto alla media storica del mese di ottobre. Il tutto con la Russia che si è detta chiaramente pronta ad aumentare il flusso da subito ma solo attraverso Nord Stream: quindi, o l’Ue si decide a dare un dispiacere al Dipartimento di Stato Usa, affrettandosi ad approvare le licenze oppure l’hub tedesco di Mallnow rischia di restare a secco. E noi al freddo e al buio. Pragmatismo da uomo di mercato.
Sul PNRR ci sono ritardi? Draghi afferma “rispetteremo tempi e scadenze come abbiamo fatto finora”, ma sa bene che non si possono rispettare. Per la semplice ragione che al PNRR e al Recovery Plan mancano circa 100.000 addetti, fra cui 3mila figure di staff specializzato, 23mila operai specializzati e più di 70mila operai generici. Praticamente, rispettare i tempi appare impossibile. Oltretutto, al netto di ritardi già ampiamente cristallizzati nelle amministrazioni del Mezzogiorno, incapaci di far partire bandi e appalti e quindi già a forte rischio di perdita degli stanziamenti europei.
Il Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, il quale, intervenendo alla Giornata del risparmio, ha estratto a sorpresa dal cilindro un coniglio di quelli destinati a parecchie interpretazioni: “l’Ue dia vita a un fondo di ammortamento per sterilizzare il debito contratto dagli Stati membri come risposta alla pandemia”. Tradotto, il debito da Covid diventi comune. In Germania regna un po’ di caos interno, senza ancora il nuovo Governo federale e con il falco Jens Weidmann che ha annunciato l’addio. Appare quantomeno improbabile che Berlino lasci passare una simile proposta senza alzare le barricate, soprattutto al netto del no “ex ante” recapitato ai partner dal nascituro governo Scholz rispetto a riforme e ammorbidimenti del Patto di stabilità. Ma il problema c’è.
Infine, le tensioni politiche, esacerbate dai risultati dei ballottaggi. Ma non solo. Perché se le divergenze fra le varie anime che formano la coalizione di governo paiono destinate ad aumentare, soprattutto su temi caldi come le pensioni e con la Lega ancora al centro delle dispute, le dichiarazioni dei capi-delegazione di PD e M5S, Orlando e Patuanelli, al presidente Draghi: di fatto, il Consiglio dei ministri ha votato il via libera al documento programmatico di bilancio senza che i suoi membri lo avessero potuto preventivamente leggere. Il tutto senza scordare l’aumento vertiginoso (+23%) delle assenze per malattia nelle aziende dopo l’introduzione del green pass, di fatto segnale chiaro di come la situazione occupazionale e produttiva rischi di subire contraccolpi ulteriori a quelli che inflazione e crisi della supply chain stanno già inferendo al nostro outlook per un Pil atteso ancora al 6%, mentre quello del mondo intero crolla. Vista oggi in base agli elementi che abbiamo in mano, la situazione pare chiara. Quantomeno a livello di corsa per il Quirinale: Mario Draghi è destinato a restare a Palazzo Chigi anche dopo il 2023.
Inoltre, l’inflazione è tornata. In Europa i livelli sono un po’ più bassi. In Italia e Francia, ad esempio, siamo poco sopra il 2%, ma già in Germania o Spagna navighiamo intorno al 4%. Questi livelli più bassi, però, non debbono ingannare, perché si tratta comunque di alcuni dei livelli più alti degli ultimi 25 anni. L’aumento della produttività dovuto alla tecnologia, le delocalizzazioni in Paesi con costo del lavoro più basso e, in Europa, un’ossessione per l’inflazione fin dal decennio precedente la nascita dell’euro, hanno fatto sì che il tasso di crescita dei prezzi sia sempre stato molto basso e quasi impercettibile. L’aumento dei prezzi è partito dopo l’arrivo del Covid. Le cause principali:
1 – i bassi prezzi di petrolio e materie prime negli ultimi anni hanno scoraggiato i nuovi investimenti. Con meno miniere, pozzi petroliferi e giacimenti di gas in funzione, ora che la domanda è ripresa non c’è offerta sufficiente e il risultato è l’aumento dei prezzi;
2 – c’è uno shortage su componentistica industriale specifica (in particolare semiconduttori);
3 – l’aumento dei prezzi delle materie prime ha fatto crescere a cascata tutti i prezzi di semilavorati, prodotti industriali, utenze e così via;
4 – gli stimoli monetari e fiscali stanno spingendo i consumi; questa è stata una buona cosa nella prima fase del Covid, per bilanciare una domanda repressa.
Potenzialmente, tutti questi elementi possono portarci a un’inflazione a due cifre. Tuttavia, manca ancora una componente molto importante. Si tratta dei salari, che al momento non stanno crescendo come i prezzi delle materie prime. La disoccupazione è ancora elevata e in quasi tutti i Paesi restiamo sopra i livelli pre-Covid. Quindi la pressione non è eccessiva. Una cosa che non fa certo piacere ai lavoratori, perché se le materie prime crescono più dei salari allora vuol dire che si sta riducendo il potere d’acquisto.
Cosa ci aspetta nell’immediato futuro? Nessuno ha la sfera magica. Ma una cosa deve essere fatta: tornare alla Politica della Programmazione, tornare ad essere seminatori e non raccoglitori, come accade in questa fase della politica italiana aperta dalle elezioni del 2018.