Il coraggio di Jacinda


Da questa parte dell’emisfero Jacinda Ardern appariva poco più che un fenomeno di costume. Dall’altra parte dell’emisfero, e più esattamente in Nuova Zelanda, era primo ministro di un Paese in cui non succedeva praticamente nulla e dove il problema maggiore – recitava una vecchia leggenda metropolitana – era il buco nell’ozono creato dalle flatulenze di milioni di pecore.

Poi un tale Brenton Tarrant, venuto nientedimeno che dall’Australia a far danni in Paradiso, ha all’improvviso proiettato questa giovane leader sulla scena internazionale molto più brutalmente di quanto non lo avessero fatto gli altri episodi per i quali si era parlato di lei: aver difeso il fatto di poter essere premier e madre – “sono incinta, non malata”, aveva detto appena eletta – e aver portato con sé il figlio di tre mesi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

In entrambi i casi aveva scatenato un applauso globale e la simpatia trasversale, ma si era ancora lontani anni luce dalle crisi che dovevano affrontare le sue colleghe un po’ in ogni parte del mondo: attempate signore o giovani madri che fossero.

E così quando, poche ore dopo che Tarrant aveva seminato morte e terrore in due moschee di Christchurch, è comparsa in tv per rassicurare i neozelandesi, è apparsa per quello che era e non per come il mondo voleva continuare a immaginarla. Via l’immagine di giovane – ha 38 anni – leader laburista di un Paese in cui è facile dirsi progressista quando un immigrato deve attraversare migliaia di chilometri di Oceano e farsi precedere da un consistente deposito in banca, e via l’immagine di madre/lavoratrice.

Capelli legati, viso tirato e sobrio tailleur nero, la Ardern si è presentata in diretta per spiegare come stavano le cose, senza nascondere nulla, anche perché nulla poteva essere nascosto, dato che era stato trasmesso in diretta social. Ma non ha nascosto nemmeno il fatto che Tarrant, nove minuti prima dell’inizio del massacro, le aveva mandato via mail il suo delirante manifesto. Troppo poco margine e poche informazioni (il killer non diceva dove avrebbe colpito) per poter fare altro che informare i servizi di sicurezza, entro due minuti dal click su quello strano messaggio.

Ora che l’Isis ha annunciato vendetta, tutti gli sguardi sono su di lei, chiamata a essere ancora più autorevole di quanto non sia stata finora, a essere esempio per un Occidente spesso vittima ma questa volta carnefice in casa propria. E l’essersi mostrata con il capo coperto in segno di rispetto per le vittime è stato un passo più significativo dei roboanti proclami degli islamofobi come il senatore australiano (sì, ancora un australiano, ci sarà una ragione se i neozelandesi non li hanno in simpatia) che si è pure preso un uovo in testa.  

Ma da dove viene Jacinda Kate Laurell Ardern? Nata nel 1980 ad Hamilton nel nord della Nuova Zelanda, si  laurea nel 2001 ed entra nel team dei consulenti britannici per Tony Blair. Conquista sia il Partito Laburista neozelandese, sia il suo elettorato, ricostruisce MarieClaire,  riportando in alto i consensi della sinistra. Nel 2008, a 28 anni, diventa presidente dell’Unione internazionale dei giovani socialisti e parlamentare, incarico mantenuto per 10 anni durante i quali lavora per comprendere le necessità del Paese e del partito, superando anni e anni di dibattiti focalizzati sulla paura che hanno reso l’elettorato ipersensibile e rigido.

Eletta all’unanimità come vice leader del partito laburista il 1 marzo 2017, in seguito alle dimissioni di Annette King, ne diviene leader cinque mesi dopo, con l’addio di Andrew Little e i laburisti neozelandesi ai minimi storici nei sondaggi. Alla sua prima conferenza stampa parla di positività, speranza, possibilità. Il partito viene inondato di donazioni dai sostenitori, fino a raggiungere il picco di 700 dollari neozelandesi al minuto.

Nonostante sia una veterana politica, si presenta come un volto fresco e la CNN, fiutando il fenomeno in tempi in cui non è ancora esploso il caso Alexandria Ocasio-Cortez, conia termini come Jacindamania o The Jacinda Effect. 

Viene nominata Primo Ministro grazie all’appoggio dei populisti di Winston Peters e all’alleanza con i Verdi. È la terza donna premier in Nuova Zelanda dopo Jenny Shipley ed Helen Clark. Incontra le popolazioni Maori, parla con il premier australiano Malcolm Turnbull per risolvere la questione degli immigrati neozelandesi in Australia e si mostra sempre “focused, empathetic and strong”, concentrata, empatica e forte, come recitava il motto della sua campagna elettorale. Vota a favore del matrimonio omosessuale, marcia al gay pride ed è a favore dell’aborto. 

Ora la sfida è ancora più dura: tenere l’odio lontano da casa, non importa che colore, religione o appartenenza politica abbia.

@ugobarbara

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Fonte: estero agi