Guido Rossa prima di tutto


Memoria In un saggio pubblicato da Einaudi vita e passioni dell’operaio ucciso a Genova dalle Brigate rosse nel 1979 Sergio Luzzatto interroga carte e testimoni per restituire l’uomo oltre la sua tragica fine

Di Francesco Cevasco ·

Alpinista, Guido era salito sulle vette più astruse del mondo, anche sull’Himalaya Poi fu paracadutista della Folgore
Di lui «non si è voluto ricostruire e ricordare altro che la morte, disinteressandosi della vita». È in queste parole che Sergio Luzzatto racchiude il senso del suo nuovo libro: Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa (Einaudi).
È il 24 gennaio 1979. L’alba. L’ora in cui tanti operai vanno al lavoro. Un commando delle Brigate rosse uccide Guido Rossa, a pochi metri da casa, in via Fracchia, nel quartiere popolare di Oregina, a Genova. È «colpevole» di aver testimoniato contro un operaio come lui che aveva distribuito volantini delle Br all’Italsider di Cornigliano, la fabbrica siderurgica dove lavoravano tutti e due. Di più: Rossa era comunista, sindacalista della Fiom-Cgil e delegato di reparto dell’Officina. Aveva quarantaquattro anni, una moglie più grande di lui, una figlia sedicenne, un passato che scomparirà d’improvviso dopo quei cinque colpi di pistola. In quel preciso momento le Brigate rosse «cominciano a stringere la corda alla quale si stanno impiccando». Un operaio, un compagno…
Inevitabilmente, dopo quella morte da martire, Rossa diventerà un «santino» laico. Ma per Luzzatto non può restare soltanto questo. E racconta di «un uomo intenso, complicato, sanguigno».
Luzzatto è uno studioso che ha sempre rifiutato di galleggiare sulla crosta ortodossa e scontata della storia e delle storie degli uomini a costo di crear polemica. Anche qui con coraggio e onestà scava in archivi e testimonianze alla ricerca di un personaggio complesso che voleva «scendere giù in mezzo agli uomini», cioè fare davvero qualcosa per gli altri.
E in quel «scendere», in quel verbo che Rossa usa in una lettera scritta nove anni prima della sua morte all’amico alpinista Ottavio Bastrenta, sta la radice delle svolte decisive della sua vita. Scendere da dov’era salito. Guido è stato un alpinista. Era salito sulle vette più astruse del mondo, quelle vicine a lui e quelle dall’altra parte della Terra. Anche sull’Himalaya aveva piantato i suoi chiodi. L’individualismo del guardare il mondo dall’alto era stato un tratto di vita importante. Era nietzschiano. Contaminato dal Superuomo, arrampicava non per cercare dio ma per sentirsi un dio. E ancora in un altro lassù continuò il suo mondo celeste: diventò paracadutista della Folgore, l’élite dei padroni del cielo (il suo istruttore era Oreste Leonardi che poi divenne caposcorta di Aldo Moro e morì nell’agguato brigatista di via Fani).
Eppure Rossa è stato sempre operaio; nell’autunno del 1949, quindicenne, era già «a tirare la lima» alla ditta Chiumino di Torino. Non che fosse un operaio modello. Appena poteva scappava in montagna a scalare, arrampicare, sparire dal mondo degli altri. Lui, che un giorno decise di «scendere giù in mezzo agli uomini». Lui che era una forza della natura, un bellunese «razza Piave». Paura di niente. Coraggio da vendere. Capace di rischiare la vita per il suo piacere (violare le vette delle montagne irraggiungibili agli umani); capace di rischiare la vita per tenere ferme le sue idee (sfidare le Brigate rosse sul territorio che volevano conquistare: la fabbrica dell’Italsider, le fabbriche tutte dell’Italia anni Settanta incerta sul suo futuro). Scenderà comunque tra gli uomini Guido Rossa. E tra gli uomini metterà su famiglia. Anche qui subirà un atroce destino. Il primo figlio Fabio a due anni morirà intossicato dal gas. Gli morirà tra le braccia mentre sull’ambulanza lo portava al pronto soccorso. Prima gli erano morti due compagni di scalate. Ma dopo lui arrivò in cima alla montagna lo stesso. Non senza dolore. Non senza strazio. Ma era ancora un superuomo.
La vera grandezza di Guido Rossa nasce quando lui diventa un uomo «normale». Meglio: un operaio normale. Che poi nor
male non era mica tanto. Era il più bravo a dominare quelle macchine, a volte alte come una palazzina, a volte intricate come un labirinto da cui sapeva tirar fuori la perfezione, quella che creava «il plusvalore». Rossa era anche un raffinato fotografo che andava insieme con la figlia Sabina nelle riviere liguri a collezionare immagini di reperti di acquedotti romani.
Luzzatto scava nella memoria di Rossa facendoci scoprire nobiltà e sofferenze, asprezze e generosità, debolezze e riscatti, cadute e ardimenti fino ad oggi sconosciuti se non a chi gli è vissuto vicino. Non a caso la famiglia Rossa ha aperto il suo archivio privato allo storico. Nel libro ci sono molte foto: il giovane operaio, il giovane marito, il giovane alpinista, il giovane paracadutista, il giovane sindacalista in piazza con la bandiera rossa della Cgil e il pugno chiuso, l’adulto morto troppo giovane per mano delle Brigate rosse.
La storia che racconta Luzzatto approfondisce anche altre questioni. Il carattere, come si dice, di Rossa. Non era certamente un tollerante. Che fosse il padrone, l’amico-rivale alpinista, il collega d’armi paracadutista, il compagno di lavoro fancazzista o peggio, alzava non soltanto il pugno ma anche la voce.
Forse questo suo caratteraccio gli è costato anche la vita. Secondo una delle versioni — correttamente Luzzatto le riporta tutte — Rossa doveva essere «semplicemente» ferito alle gambe. Simbolico e agghiacciante messaggio per dire: non osare, e non osate voi altri, fare nuovi «passi» controrivoluzionari. Ma dopo che uno del commando così fece, di sparare alle gambe, rispettando — pare — gli ordini della direzione strategica delle Br, Rossa, ferito e sofferente ma orgoglioso e insofferente, sfidò a parole Riccardo Dura, il brigatista che gli diede il colpo, i colpi, di grazia. Dura, che se ne stava andando, tornò indietro alle parole d’orgoglio di Rossa e…
Ovviamente nel libro ci sono tante altre pieghe della vicenda umana di Rossa; ricordiamo che questa è la missione del racconto di Luzzatto: non ostentare il santino ma riportare in terra l’uomo che scalò le montagne, aprì il paracadute e quando decise di atterrare cominciò a lottare per i diritti dei lavoratori.
Nelle sue foto Rossa documentava non soltanto il gelo delle cime tempestose che violava, ma anche il calore asfissiante e le particelle avvelenate delle cokerie che bruciavano i polmoni ai lavoratori; magari, nei suoi reportage, ci infilava anche qualche bandiera operaia. E portava le sue diapositive nelle ricche case borghesi, accolto in quanto rispettato socio del Cai (Club alpino italiano) per sentirsi dire: «Belle foto, ma poi che cavolo c’entrano le bandiere rosse?!».
Dopo le bandiere rosse arrivarono le Brigate rosse. Ma il compagno Rossa aveva seguito la linea berlingueriana di denunciare gli eversori e i sovversivi. Quando testimoniò era solo. E ancora oggi gira un senso di colpa attorno a chi gli sarebbe dovuto stare accanto.
Forse il breve ritratto che ne fa Renato Penzo, compagno operaio di Guido, fa capire com’era: «Spaccone e bastian contrario, provocatorio e attaccabrighe» anche quando era «sceso giù in mezzo agli uomini». Penzo, nel 1973, fece una relazione di tre ore sulla strategia del compromesso storico di Berlinguer. Guido gli disse, alla fine: «Non ci hanno uccisi i fascisti, ci ammazzi te di chiacchiere». Ecco il Rossa che ci restituisce Luzzatto. Quello vero.

Fonte: Corriere della Sera