DIRE ADDIO AL TERZOPOLISMO


Urge un Calenda lamalfiano contro il velleitarismo del Terzo polo

DI GIULIANO FERRARA

Bisogna forse ridimensionarsi e dire addio al terzopolismo, se si voglia contare di più e fare sul serio nella politica italiana. Il vero nemico dei liberali e riformisti non è lo statalismo, l’approssimazione partitica, la abitudinaria sedentarietà culturale del sistema istituzionale, il comunismo, il fascismo eterno, o adesso i social e il talk-show o il “Grande Fratello” e altre caratteristiche della storia nazionale e del contemporaneo, il vero nemico loro è il velleitarismo. Non c’entra il Friuli elettorale, cinico e baro per i nostri amici che vogliono prendere l’italia sul serio. Era abbastanza ovvia un’infilata di sconfitte frustranti nelle regionali, in questo Carlo Calenda non ha torto. C’entra invece la lezione di Ugo La Malfa. Ne ha date tante, quel grande e sanguigno uomo politico repubblicano, e non solo quando era il capo dell’ufficio studi della Commerciale di Raffaele Mattioli o quando inventò una linea di intervento riformista per l’economia e lo sviluppo scrivendo la Nota aggiuntiva da ministro del Bilancio di Amintore Fanfani nel 1962. La lezione principale è stata che il 3 per cento o giù di lì è una dannazione che va benissimo, l’importante è avere idee forti, farle circolare con ambizione pragmatica, intermediare le relazioni tra le grandi forze popolari, le coalizioni arruffate e i partiti vocianti e inconcludenti, o se vogliamo le chiese ideologiche.
Entrare e uscire dalle più varie combinazioni del potere con carattere, con tigna, evocando per sé prestigio rispetto e operosità ma sempre ricordando di trasportare nel bordello del consenso facile e delle sue malizie l’impresa difficile di fare sul serio, come dicono gli slogan elettorali di Azione, futuro partito unico con Italia viva.
Irrompendo a Roma, nello sprofondo della sindacatura di Virginia Raggi, Calenda prese il venti per cento, e questo lo ha un po’ illuso e confuso. Anche il tepore sconfittista di Enrico Letta, a fronte del quale arrivò a percentuali già meno esaltanti ma inimmaginabili un minuto prima, e anche anni prima, contribuì ad aumentare la sindrome terzopolista, l’idea che l’ora liberale è suonata, che mettendo insieme il ritorno di Giuseppe Mazzini e il novismo tecnomanageriale, i liberali potessero cominciare a fare quel che non era loro mai riuscito: trasformare in una variante competitiva del sistema politico italiano competenza, gusto per l’individualismo e la concorrenza, ricognizione delle cose e intervento puntuale su di esse, e altre qualità encomiabili ma estranee al cuore pulsante della nazione. Invece, sia detto come sempre in modo superficiale e a sproposito, che è poi l’unico modo di ragionare tra l’insania canterina nazional-balneare, i due liberali (per così dire) che contano nella storia italiana sono Giolitti e Berlusconi, un filibustiere di grido, manovratore parlamentare e prefettizio capace di barcamenarsi con la sua “malavita” tra socialisti e cattolici nella grande crisi del primo Novecento, e un mattocchio di genio ispirato nel virare la caduta dei partiti nel discredito giudiziario in un capitolo nuovo, mai veramente scritto ma entusiasmante per audacia, del nostro modo di convivere e di non prendersi troppo sul serio, intanto varando l’alternanza che non c’era mai stata.
Seguo Calenda su Twitter, e non mi nego la condivisione allegra di qualche Martini balneare. Non mancano mai le sue spiegazioni. Neanche le sue soluzioni puntuali su grandi questioni come la sanità, i trasporti, il fisco, il lavoro, la tecnologia. Non mancano i suoi resoconti amabili in famiglia, compresa una gita a Delfi con tutto il cucuzzaro che fa il paio con l’indimenticabile gita a Chiasso, mai fatta dalla nostra intelligenza, evocata da Alberto Arbasino. Il suo liceo Classico, magari anche per decreto legge, supera a occhio l’agrario made in Italy, sebbene con l’agricoltura ci sia poco da scherzare in un paese come il nostro. Sono tempestive e qualche volta ficcanti le sue reprimende, scenatacce, certi insulti ben confezionati, divertente il vernacolo a correzione parziale del suo totalitarismo pedagogico. Incantevoli le sedute teorico-spiritiche intorno a un Gin Tonic, con le luci della sera che si opacizzano, in mezzo a giovani di buona lena e di certe speranze per il loro mondo che non conosce mai l’alba. Mi sembra un peccato che tutto questo generoso e faticoso studiare, organizzare lo studio degli altri, tutto questo mettere a punto i puntini sulle “i”, sia poi convogliato in un progetto che è in sospetto di ridondanza, in una accesa ripulsa delle alleanze possibili con i somarelli, che sono tanti di più dei laureati magna cum laude, nell’idea un poco megalomane che ci sono sì gli uni e gli altri, ma valgono poco, e un terzo è pronto a farsi strada tra di loro e a batterli in breccia sul loro stesso terreno. Sarebbe negli auspici un Calenda che partecipa al gioco nella sua vera dimensione, che strappa e ricuce, che si sporcifica un tanto e s’infarina, che s’infila e docet, che offre vere potenzialità e buone pratiche, mentre la moglie è in vacanza, senza soffrire troppo per la vera dimensione minoritaria, dunque eccelsa, del liberalesimo italiano. Un Calenda lamalfiano, ecco.

fonte: Il Foglio