DIETRO LE ACCUSE A ISRAELE


Di Paolo Mieli

Il Sudafrica, nell’accusare Israele al cospetto della Corte internazi&onale di giustizia dell’Aia per il comportamento tenuto a Gaza negli ultimi cento giorni, avrebbe potuto restringere il campo a quelle che anche molti Paesi che guardano ad Israele senza ostilità hanno definito «gravi violazioni del diritto umanitario». E procedere al conteggio delle vittime già di per sé impressionante. Ottenendo — lo si dà per scontato visti precedenti e composizione dell’assemblea delle Nazioni Unite — la condanna dello Stato ebraico assieme ad un’ingiunzione a «fermare la guerra». Ma ha deciso di compiere un passo in più su cui — a parere di chi scrive — non ci si è soffermati a sufficienza. Pretoria, assieme alle capitali che ad essa si sono associate nella compilazione del dossier accusatorio (prime tra tutte Ankara e Kuala Lumpur), ha inteso dare contorni più precisi all’affermazione del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres secondo il quale l’aggressione di Hamas del 7 ottobre scorso «non è avvenuta nel vuoto». Ha voluto rendere, per così dire, più chiaro il contenuto di quel «non vuoto». Il ministro della Giustizia sudafricano, Ronald Lamola, nell’istruire la squadra dell’accusa (guidata dal penalista John Dugard) ha sostenuto che l’opera di distruzione contro i palestinesi «dura da 76 anni». Che significa? Lo ha spiegato meglio (in un’intervista a Laura Burocco del manifesto) Zane Dangor, direttore generale del Dipartimento delle relazioni internazionali del Sudafrica.
Dangor ha dichiarato: «Il 7 ottobre (pur da condannare per la sua particolare atrocità) non può essere considerato separatamente da un’occupazione bellicosa che dura da settantasei anni». Israele, in altre parole, va considerata come una «potenza occupante» fin dal 1948 allorché David Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato ebraico.
In quei giorni di «settantasei anni fa» (secondo le disposizioni Onu del novembre 1947) sarebbe dovuto nascere — assieme a quello israeliano — uno Stato palestinese. Ma i Paesi arabi circostanti aggredirono lo Stato di Ben Gurion dando origine a una guerra che durò un anno. Al termine della quale, Israele tenne per sé una porzione delle terre da cui era partito l’attacco. Ragion per cui, se Lamola e Dangor, avessero parlato di «settantacinque anni fa» (cioè, avessero definito il punto di partenza nel 1949), il loro discorso poteva appoggiarsi ad una pur fragile stampella.
Stampella che sarebbe diventata appena più consistente se avessero fatto riferimento a «cinquantasette anni fa», cioè al 1967. Vale a dire al momento in cui, a seguito della «Guerra dei sei giorni», Israele occupò i territori assegnati ai palestinesi dalle Nazioni Unite nel novembre di vent’anni prima. Solo che avrebbero dovuto contestualmente spiegare come mai lo Stato palestinese non era nato nel corso dei vent’anni che vanno dal ’47 al ‘67. E come mai nel corso dei successivi decenni, a fronte di una politica (potenzialmente?) genocidaria, la popolazione palestinese che ha vissuto in quei territori sia più che quintuplicata.
Ma qui occorre tornare all’anno indicato dal Sudafrica come origine del tutto: il 1948. Far risalire, sia pure obliquamente, la condotta genocida all’«occupazione israeliana del 1948» equivale a fissare come obiettivo (del mondo intero) la fine di quell’«occupazione». E ad offrire una patente di legittimità a chiunque si batta, anche nei modi più sanguinosi, contro gli occupanti del ‘48. Verrà poi il tempo in cui verseremo lacrime per qualche atto particolarmente efferato, nelle stesse modalità con cui adesso noi tutti talvolta eccepiamo al bombardamento di Dresda (15 febbraio 1945). Ma quando ci si batte contro un «occupante» che per di più è in procinto di compiere o sta commettendo un «genocidio», non si può andare troppo per il sottile.
Qui non si tratta soltanto di fermare la guerra di Gaza. Ma di mandare un segnale al mondo intero. Nei confronti di chi — con modalità riconducibili alla sua stessa nascita (il fatidico 1948) — si rende responsabile di una pulizia etnica a carattere genocida, è consentita ogni forma di lotta. Per questo fino ad oggi è stata usata con particolare cautela la parola «genocidio» introdotta nel lessico giuridico da un raffinato ebreo polacco nel 1944. Quel termine fu messo alla prova un prima volta al processo di Norimberga (19451946) dove si giudicavano i crimini nazisti. Le Nazioni Unite, dopo una non breve fase di elaborazione, lo adottarono nelle proprie carte il 9 dicembre 1948. Perché si possa parlare di «genocidio» — recitano queste carte — deve essere dimostrabile l’«intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». In questo senso può capitare che vengano consumati crimini orribili — come la distruzione di intere città — senza che sia lecito condannarli facendo ricorso a quel termine. Li si censurerà e, nel caso, verranno prese misure perché non abbiano a ripetersi, a norma di altri capi di imputazione. Il «genocidio», dopo il 1948, è stato preso in considerazione solo per circostanze di evidenza macroscopica come i casi dell’ex Jugoslavia, del Rwanda, della Cambogia e pochi altri. Anche in quelle occasioni con dibattiti assai interessanti circa l’intenzionalità della «distruzione, in tutto o in parte del gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», delle vittime causate da colui che sedeva, volta a volta, sul banco dell’imputato. Mai lo si è fatto con disinvoltura.

Fonte: Il Corriere