Type to search

A cinquant’anni dalla legge sul divorzo

Share

di Antonino Gulisano
Gli anni tra il 1968 e ’70 furono effervescenti e rivoluzionari. Furono gli anni del Movimento Studentesco, delle battaglie sindacali e dell’avanzamento dei diritti civili.
Dal 1860 si dibatteva sull’introduzione del divorzio in Italia, ma le parti politiche non si trovavano mai d’accordo. Fin dall’Unità d’Italia le iniziative per inserire nell’ordinamento italiano l’istituto del divorzio, almeno dieci, vennero bocciate soprattutto a causa dell’influenza delle gerarchie della Chiesa cattolica. Nel 1878 ci provò il deputato Salvatore Morelli che venne per questo rappresentato in una
vignetta circondato da donne in abiti maschili con sigaro e cilindro. Nel 1902 fu il Governo Zanardelli a elaborare una proposta che però non venne mai approvata.
I patti lateranensi del 1929 resero ancora più complicata la situazione, dal momento che vi si riconoscevano effetti civili ai matrimoni celebrati in Chiesa.
E aumentarono le difficoltà a seguito all’inserimento dei patti Lateranensi nella Costituzione Italiana del 1948.
L’Italia rimaneva uno dei pochi paesi europei in cui vigeva l’indissolubilità del matrimonio (se non per morte). Era previsto l’istituto giuridico della separazione legale: un giudice poteva cioè riconoscere che due persone non potessero più continuare a vivere insieme, ma quelle stesse persone dovevano rimanere legate
dall’obbligo della fedeltà e dell’assistenza reciproca: non potevano dunque formare una nuova famiglia. Era invece possibile ottenere l’annullamento attraverso la Sacra Rota, ma solo in alcuni casi e solo per chi si poteva economicamente permettere tutta la procedura: separarsi era dunque un privilegio.
Il 1 dicembre 1970 il Parlamento diede il via libera alla Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, la legge 898, mettendo così fine a un tabù della società italiana dove sposarsi era, fino a quel momento, una scelta vincolante per la vita.
Nilde Iotti, prendendo la parola in Parlamento prima dell’approvazione della legge Fortuna-Baslini, disse: “Per quanto siano forti i sentimenti che uniscono un uomo e una donna, essi possono anche mutare”.
La legge che introdusse il divorzio in Italia fu approvata definitivamente dalla Camera il primo dicembre del 1970, di martedì, al termine di una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore. Erano quasi le sei del mattino, e le votazioni erano iniziate alle dieci del giorno precedente.
La legge numero 898 è conosciuta come “Fortuna-Baslini”, dal nome dei due deputati, Loris Fortuna (socialista) e Antonio Baslini (liberale), primi firmatari delle proposte di legge che furono abbinate nel corso di un lungo iter di approvazione parlamentare, dopo anni di conflitti che proseguirono anche negli anni successivi e dopo che fuori dal Parlamento la riforma era stata chiesta e sostenuta dai movimenti delle donne e dai radicali.
Nel 1974, fu proposto un Referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, dopo che 1 milione e 300mila firme furono depositate in Cassazione. Fu il primo referendum popolare nella storia della Repubblica e venne promosso dalla Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani, segretario.
Si votò il 12 e il 13 maggio e andarono alle urne più di 33 milioni di persone, l’87,72 per cento di chi ne aveva diritto: i “no”, che confermarono il divorzio, ottennero il 59,30 per cento, i “sì” all’abrogazione della legge il 40,7. Così la Baslini-Fortuna fu definitivamente confermata. Fu una vittoria dei socialisti, dei
progressisti e delle libertà civili.
Il lungo iter parlamentare sul divorzio iniziò quando il deputato socialista Loris Fortuna – durante la V legislatura, governo Colombo, esponente della Democrazia Cristiana – presentò nell’ottobre del 1965 un progetto di legge sui “Casi di scioglimento del matrimonio”. Lo scontro fu da subito molto violento,
tra uno schieramento laico che appoggiava il progetto Fortuna e i deputati cattolici che arrivarono a denunciarne il «contenuto rivoluzionario».
Da una parte, c’era l’intransigenza della DC di Fanfani, del Movimento Sociale Italiano di Almirante e dei monarchici, dall’altra il favore del PSI, dei radicali, dei movimenti delle donne e dell’UDI, l’Unione donne italiane, mentre il PCI, dopo molte incertezze circa l’impegnarsi o meno sulla questione, prese una posizione netta a favore solo in piena campagna referendaria.
Nel 1968, il deputato liberale Baslini presentò un nuovo progetto di legge, più moderato rispetto alla proposta Fortuna. Ma visto che entrambi i testi prevedevano l’introduzione nell’ordinamento italiano dell’istituto del divorzio, vennero uniti in una medesima proposta di legge nell’aprile del 1969, che passò poi al voto del Parlamento.
Nel 1969, in uno speciale della Rai, la questione del divorzio venne introdotta così: «Oggi da più parti si preme perché una legge totalmente nuova sia inserita nel diritto familiare italiano: la legge sul divorzio. Quello sul divorzio è un discorso difficile che pone tutta una serie di domande: la fine dell’indissolubilità matrimoniale ferisce e indebolisce il concetto di famiglia o invece consente il recupero di individui dolorosamente colpiti? Tutela la morale o la offende?
Protegge i figli o mette a rischio la loro stabilità sociale?». Fortuna, in quella trasmissione televisiva, disse di voler adeguare la «legislazione arcaica nel campo del diritto familiare alle mutate condizioni», disse che si trattava di una «scelta di libertà» («Nessuno sarà obbligato. Chi per propria coscienza ritenga di non
doverlo fare non lo farà») e parlò della necessità «di trovare un rimedio a situazioni completamente bloccate dalla realtà».
Nilde Iotti, il 25 novembre del 1969, quando l’iter legislativo era ormai alle ultime battute, chiese la parola alla Camera dei Deputati, e fece un discorso diventato famoso nella storia dei diritti delle donne.
Certo, noi sappiamo molto bene che quando una famiglia si dissolve la condizione dei figli diviene estremamente grave; noi non possiamo
disinteressarcene, come se questo fatto non esistesse. Ma credo che vi sia un fatto che precede le considerazioni di questo tipo e che non possiamo dimenticare: i figli sono sì importanti nella vita di un nucleo familiare, ma i protagonisti della famiglia non sono soltanto i figli, ma anche il padre e la madre. Sono questi ultimi a determinare la vita familiare ed il livello morale di essa; non la presenza dei
figli. La Chiesa stessa non ha mai fatto questione, nelle sue sentenze di nullità del matrimonio, della presenza dei figli. Non è mai stata questa una ragione che abbia impedito ai tribunali ecclesiastici di emettere sentenze di nullità del matrimonio.
Dopo la prima approvazione alla Camera (ci vollero 33 sedute e gli interventi di 133 deputati), la discussione passò al Senato che votò il 9 ottobre del 1970. Il testo emendato tornò alla Camera che il 1 dicembre del 1970 lo approvò in via definitiva (con 319 sì e 286 no, su 605 votanti e presenti). I divorzi nel primo anno di applicazione della legge furono 17.134, l’anno dopo 31.717.
La Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale Italiano, parlando della legge come del primo passo verso la dissoluzione della società e del suo fondamento, si attivarono subito per il referendum abrogativo. E la campagna fu, di nuovo, molto aspra. Il repubblichino Giorgio Almirante, leader del Movimento Sociale Italiano, fece stampare un manifesto con scritto “Contro gli amici delle Brigate
Rosse il 12 maggio vota sì”. Poco prima del voto Amintore Fanfani disse:
«Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!». E domenica 12 maggio, papa Paolo VI, affacciandosi dalla finestra per la preghiera di mezzogiorno, dichiarò: «Noi non romperemo ora il silenzio di questa giornata, destinata per gli italiani alla riflessione decisiva, in rapporto con
uno dei più gravi doveri per i credenti e per i cittadini, in ordine al bene della famiglia. Noi inviteremo soltanto a mettere questa espressa intenzione, implorante sapienza, nella nostra odierna preghiera alla Madonna».
Dall’altra parte, PCI, PSI, Partito radicale, associazioni laiche e movimenti delle donne continuarono a difendere la “libertà di scelta” e a sostenere il “no” all’oppressione e allo sfruttamento all’interno della famiglia. Il divorzio vinse e da lì in poi i movimenti femministi cominciarono a porsi il problema della gestione politica di quel che sarebbe accaduto dopo: «Ogni causa di separazione o di divorzio dovrebbe diventare una vertenza sul lavoro domestico», sostennero.
La legge del 1970 venne modificata, nel 1978 e nel 1987 quando – grazie all’allora presidente della Camera Nilde Iotti che riuscì a ottenere l’accordo unanime di tutti i gruppi – si ridussero da cinque a tre anni i tempi necessari per arrivare alla sentenza definitiva. Nel 2015 è stato approvato un disegno di legge che introduce il cosiddetto divorzio breve, che riduce il periodo.
Con buona pace di tutti coloro che prevedevano catastrofi e disfacimento delle famiglie a causa della legge sul divorzio, le statistiche ci indicano dati normali e non tragici.
Se vogliamo fare una riflessione più attenta, anche alla luce di questa emergenza pandemica di Covid 19 e delle diseguaglianze sociali e economiche, allora dobbiamo dire che il disfacimento di tanti nuclei familiari è causato da questi fenomeni e non dalla Legge sul Divorzio, che ne è una conseguenza.


Tags: