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1868 Giosuè Carducci viene sospeso per due mesi dall’insegnamento della letteratura italiana all’Università di Bologna

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Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci (Valdicastello, 27 luglio 1835 – Bologna, 16 febbraio 1907) ,  poeta, scrittore, critico letterario,  accademico italiano, primo italiano a vincere il Premio Nobel per la letteratura, nel 1906.  Nel 1938 la sua  famiglia,  a causa del concorso vinto dal padre per diventare medico di zona, si trasferisce a Bolgheri, sperduto  borgo della Toscana che grazie alla presenza del  poeta diventerà famoso in tutti il mondo. La permanenza nella Maremma è testimoniata e rievocata con affettuosa nostalgia nel sonetto “Traversando la Maremma toscana” (1885) e in molti altri luoghi della sua poesia. Del nucleo  familiare fa anche parte la celeberrima Nonna Lucia, una figura  ritenuta rilevante per l’educazione e la  formazione del piccolo Giosuè tanto  da essere ricordata dal poeta con grande affetto nella poesia “Davanti San Guido“. Pochi anni dopo, nel 1842,    scompare questa importante figura,  gettando Giosuè nello sconforto.

Il 28 aprile 1849 i Carducci giungono a Firenze. Giosuè frequenta l’Istituto degli Scolopi e conosce la futura moglie Elvira Menicucci, figlia di Francesco Menicucci, sarto militare. L’11 novembre 1853 il futuro poeta entra alla Scuola Normale di Pisa. I requisiti per l’ammissione non collimano perfettamente, ma è determinante una dichiarazione di padre Geremia, suo maestro, in cui garantisce: “… è dotato di bell’ingegno e di ricchissima immaginazione, è colto per molte ed eccellenti cognizioni, si distinse persino tra i migliori. Buono per indole si condusse sempre da giovine cristianamente e civilmente educato”. Giosuè sostiene gli esami svolgendo brillantemente il tema “Dante e il suo secolo” e vince il concorso.

Dopo la laurea, conseguita con il massimo dei voti, insegna retorica al liceo di San Miniato al Tedesco. Si  trasferisce con la famiglia a Bologna dove ha ottenuto la cattedra di eloquenza (più tardi chiamata letteratura italiana) all’università. Si iscrive alla massoneria e si dichiara repubblicano, anticlericale e favorevole ad uno sviluppo del processo risorgimentale in senso mazziniano. Arriva ad avere atteggiamenti anarchici e socialisteggianti e per queste sue posizioni radicali viene sospeso dall’insegnamento per due mesi.

Ieri come oggi. 1868 – Bologna: Giosuè Carducci, titolare della cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna, viene sospeso per 75 giorni, per aver sottoscritto una lettera diretta a Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi

Il processo 

Il 9 aprile del 1868 Giosuè Carducci, viene sospeso per due mesi dall’insegnamento della letteratura italiana all’Università di Bologna, per aver, tra le altre cose, sottoscritto una lettera diretta a Mazzini e Garibaldi.
A condannarlo il consiglio universitario, riunito in seduta straordinaria, con 14 voti favorevoli e 4 contrari. I verbali di quel processo  sono  scritti interamente a mano e  permangono  inediti fino al 1993,  fino al ritrovamento  al ministero della Pubblica Istruzione. Grazie ai verbali  adesso è  possibile ricostruire la storia del processo a Giosuè Carducci (o Giosue, senza accento, come lo scrittore preferiva essere chiamato).
Sul banco degli imputati, insieme a Carducci,  altri due  suoi colleghi professori, Ceneri e Piazza. Tutti e tre  ex garibaldini convinti, che si resero colpevoli di aver scritto una lettera a Mazzini dove “s’ erano fatti voti per il trionfo di una causa e di un principio in aperta contraddizione coi principi e le guarentigie che sono posti a fondamento della costituzione civile dello Stato”. Grazie ad un lavoro di paziente scavo negli archivi, nei carteggi privati e nei documenti parlamentari vengono alla luce il ruolo dell’intellettuale in quel periodo, le condizioni degli atenei, l’emarginazione scolastica femminile e la ricostruzione del processo esemplare al poeta.

I capi d’accusa mossi contro Giosuè Carducci e i due colleghi, riportati nel periodico bolognese “L’Amico del Popolo”, datato 7 aprile 1868:

  1. Abituale e cospicua partecipazione ad associazioni politiche d’intenti notoriamente demagogici: 2. Opinioni pubblicamente professate nel senso di una costante ed esaltata opposizione agli atti e alle tendenze del Governo: 3. Condotta manifestamente contraria ai doveri speciali che incombono ad uomini investiti in così alto grado della fiducia pubblica, sociale e governativa: 4. Firma d’uni indirizzo a Giuseppe Mazzini, dove erano fatti voti per il trionfo d’una causa e d’un principio in aperta contraddizione “coi principii e le guarentigie che sono posti a fondamento della costituzione civile dello Stato” (articolo 106 della legge 13 novembre 1859): 5. Mancanza alle formali promesse fatte al Ministro e agli stessi membri incaricati da codesto spettabile Consiglio di un’inchiesta sulle condizioni della Università di Bologna.

Il poeta e scrittore Giosuè Carducci si difese dai capi d’accusa mossigli con queste parole:

«Premetto ch’io dubito un poco se abbia a seguire il signor Consultore legale nel campo da lui aperto. Si tratta di accuse, le quali paion movere da massime non a bastanza determinate e che dovrebbon posare su fatti incontrovertibilmente avverati. Ora, la discussione circa coteste massime, la verificazione di cotesti fatti non parrebbe ella spettare ad altri consessi e ad altri tribunali che quello del Consiglio superiore? Il quale del resto è autorevolissimo e inappelabil giudice per tutto ciò che è segnato dalla legge 13 novembre 1859. Ad ogni modo fo alcune note ai cinque capi d’accusa che mi toccano.

  1. «Abituale e cospicua partecipazione ad associazioni politiche». Non pare esatto. Appartengo alla sola Unione democratica; e i soci mi fecer l’onore di nominarmi Comitato direttivo, al quale officio rinunziai fin dal passato novembre. Circa gli «intenti notoriamente demagogici» osservo, che il programma dell’Unione democratica è a stampa, fu a suo tempo dato a conoscere al prefetto della città, ed è quasi identico a quello dell’Unione liberale ove sedevano senatori del regno, deputati e professori onorevolissimi, tutt’altro che demagoghi.
  2. Un’accusa per opinioni è cosa non so qual più dirmi se sdrucciolevole o elastica. Confesso facilmente e francamente che l’opinione mia, qualunque siasi, come quella di molti cittadini ed officiali pubblici, non è per la condotta politica che tiene l’amministrazione del Re. In ritrovi privati, in famigliari colloqui, avrò manifestato ricisamente le mie opinioni d’opposizione; ma non ne ho né pur fatto argomento di scritture per i giornali, il che tuttavia non è stato ancora imputato a colpa ad officiali pubblici. Del resto, qualunque cosa abbia detto, son sicuro di non aver mai eccitato al disprezzo delle leggi. Bisognerebbe che mi si citassero fatti particolari, si formulassero le espressioni, si accennassero i luoghi, si producessero i testimoni e mi si raffrontassero.
  3. Per la mia condotta d’uomo io posso portare alta la fronte quanto il più onorato cittadino del regno. Come insegnante, sono persuaso di non aver mai mancato ai doveri che la legge nettamente mi segna; sono persuaso di non aver mancato mai di rispetto alle autorità scolastiche, le quali non ebbero mai a farmi ammonizione veruna. Ammetto che per alcuni io possa essere un «impiegato modello». Ma, quando si tratta di «condotta manifestamente contraria ai doveri speciali che incombono ad uomini investiti in così altro grado della fiducia pubblica sociale e governativa», bisognerebbe specificare quali siano questi doveri. Stabiliti per legge? O dedotti da teoriche individuali? In quest’ultimo caso non possono esser regole obbligatorie di condotta, né occasione di censura la loro infrazione.
  4. Dunque non si tratta più di commemorazione della repubblica romana del 1849. E pure bisogna trattarne. Col banchetto privato voieasi commemorare quel fatto consegnato oggimai alle più gloriose pagine della rivoluzione italiana. Naturale che si mandasse un saluto a chi di quel fatto è uno dei rappresentanti vivi, Giuseppe Mazzini; come si mandò ancora a Giuseppe Garibaldi. Ma quella, che il Consultar legale chiama indirizzo e che io chiamo lettera, non era destinata al pubblico. Ora l’art. 106 della legge 13 novembre 1859 parla di «scritti» co’ quali siensi «impugnati» o «scalzati» i principii e le guarentigie constituzionali. Con una lettera d’indole privata, benché fatta a nome di più persone, tanto privata che niuno la recò notizia del pubblico, né potrebbe, con una lettera privata, dico, è egli dato d’«impugnare» o «scalzare» cotesti o altri principii? E come lo sa il Consultar legale che cotesta lettera privata gl’«impugnasse o scalzasse»? La mostri. In ogni caso, da una lettera non venuta mai in luce potrebb’egli originarsi «scandalo»? Qui, e per i precedenti capi d’accusa, è il caso di dire con Cremuzio Cordo: Verba mea arguuntur: adeo factorum innocens sum: sed neque haec in principem aut principis parentem, quos maiestatis lex compiectitur. (Si mettono sotto accusa le mie parole: a tal segno sono prive di colpa le mie azioni. Ma esse non sono rivolte contro l’imperatore o la madre dell’imperatore, le sole persone protette dalla legge di lesa maestà)
  5. Quanto alle mancate promesse formali: quando il signor ministro volea nel passato novembre per modo di onorificenza e distinzione trasmutarmi alla cattedra di latino nella Università di Napoli, io gli significai che ero gratissimo e dispiacentissimo a un tempo di non poter accettare. Egli insisteva: e al fine mi si fece capire per mezzo privato che, qualora promettessi di «non farmi caporione di esorbitanze politiche e di attendere a fare il professore», mi si lascerebbe a insegnar l’italiano, che è la sola cosa che io so (o credo di sapere). Io, che caporione di esorbitanze politiche non sono mai stato e che dal 1860 in poi fo l’insegnante con zelo, risposi che non mi era grave da vero prometter cotesto al ministro; tanto più che avevo già da qualche giorno presentato le mie rinunzie da membro del Comitato direttivo dell’Unione democratica. Queste le promesse mie al signor ministro: che egli con tatto squisito non richiese mai officialmente. Altre so di non averne fatte. Il Consiglio superiore giudicherà se a quelle promesse io abbia mancato intervenendo a un banchetto di conoscenti e d’amici in casa privata e sottosegnando una lettera privata a Giuseppe Mazzini. A me par di no. Sarà forse un errore di mente il mio: ma niuno ha il diritto di credere che io conosca sì poco il debito di osservare una parola data.